Urbanismo tattico Ri-abitare la città in forma etica e sperimentale

Il concetto di urbanismo tattico o di urbanistica tattica, come pratica normata e codificata, può essere fatto risalire al 2011 quando Mike Lydon, urbanista, scrittore ed esperto di città a misura d’uomo, ha creato il progetto The Open Streets, pubblicando poi, con successo, Tactical Urbanism: Short-Term Action, Long-Term Change Vol. 1-4, che presenta casi di successo innovativi negli USA in termini di pianificazione e progettazione urbana, basati su interventi realizzati in breve tempo, su piccola scala e permanenti.

L’urbanismo tattico può quindi riassumersi in una pratica o un approccio alternativo per riqualificare e soprattutto ripensare gli spazi pubblici urbani attraverso azioni e strategie più connesse con la cittadinanza, spesso in aree circoscritte e disponendo di un basso finanziamento.

L’innovazione tecnologica, i cambiamenti climatici uniti alla crisi mondiale che ha investito le economie dell’ultimo decennio del XXI secolo, e considerando anche la crisi sanitaria della pandemia planetaria, hanno definitivamente messo in crisi il vecchio modello di abitare e attraversare la propria città,  ovvero; il vivere complesso e collettivo, con tutte le articolazioni, opportunità e le attività connesse.

Il ripensamento dello spazio pubblico è diventato quindi cruciale e strategico per la riprogettazione virtuosa – cioè: funzionale, estetica, sociale, economica, culturale – delle nostre metropoli.

Dove infatti il tessuto urbanistico ed edilizio è scadente, dove mancano servizi e interesse istituzionale per una equiparazione del tenore di vita, sanitaria, scolastica etc., va necessariamente innescato un processo capace di rinnovare e creare sinergie alternative.

In questo ragionamento è importante l’apporto dell’urbanista americano William H. Whyte, pioniere di studi sul comportamento umano negli ambienti urbani, dalla metà degli anni ’70, e sfociati nel manuale The Social Life of Small Urban Spaces, 1980. In quel periodo, era ancora piuttosto rivoluzionaria un’osservazione diretta e una teorizzazione sugli spazi pubblici urbani, a cui contribuirono anche Jan e Ingrid Gehl con la loro indagine sull’interazione tra spazio, vita e comportamenti pubblici in Italia nel 1965, poi tradotti in studi per la città di Copenaghen nel 1968.

Ma si deve a Whyte la definizione di “enorme quantità di spazio ancora non sfruttato dall’immaginazione”. (1988).

Ebbene: in questa grande estensione urbana non immaginata e irrisolta c’è terreno fertile per l’urbanismo tattico.

Considerando che, guardando all’Occidente, all’Italia, questa attenzione architettonica, urbanistica, culturale, etica ed estetica, era basilare già nell’antichità, nella costruzione della civis, partendo dal concetto classico di Agorà, passando per ogni progettazione del Rinascimento e giungendo a casi come quello incarnato da Adriano Olivetti, ci si domanda quando, come e perché si siano perse questa scienza e coscienza; essa prevedeva allora, e prevede attualmente – nell’ottica, appunto, dell’Urbanismo tattico –, il co-protagonismo degli altri: questo è, cioè, un processo aperto.

Spieghiamolo bene: di solito è l’amministrazione locale che si interfaccia con le realtà territoriali (associazioni, comitati ma anche singoli cittadini), con no profit, aziende, società o attività private spesso di zona. Si individuano le esigenze degli abitanti e si cerca di dare risposte più immediate con interventi “leggeri”, ovvero che non necessitino di infrastrutture urbane onerose e invasive – come lo sarebbero, ad esempio, sventramenti e costruzioni, come creazione di nuove strade, piazze, aree verdi – ma piuttosto si interviene sul tessuto esistente modificandone destinazione e aspetto estetico, strappandolo spesso al degrado, all’abbandono e all’abuso stesso che alcuni soggetti ne fanno (esempio aree occupate abusivamente da attività o comportamenti illegali).

Come è evidente, tale approccio inverte totalmente l’azione delle politiche pubbliche che si sono fatte nel secolo scorso nell’urbanistica “classica” e che ancora si portano in massima parte avanti.

In questo caso, ormai vetusto e sicuramente inefficace e autoritario, la pianificazione territoriale dei grandi “masterplan” (piani generali, in questo caso urbanistici), vedeva e vede il consueto intervento calato dall’alto  e l’unico decisore di questo che è, evidentemente, un “processo chiuso”, era ed è l’amministrazione pubblica – il governo centrale o locale che siano – orientata da un suo indirizzo politico.

L’urbanista, in tale processo, doveva e dovrebbe pertanto trovare le soluzioni secondo una visione imposta o, comunque, una propria visione culturale spesso in contrasto con le vere esigenze della cittadinanza. Questa metodologia, nell’arco degli anni, ha evidenziato e creato in massima parte molti più problemi che fornito soluzioni.

Diversa, e a nostro avviso migliore e necessaria, è invece quella che stiamo qui indagando e che è modellata su progetti partecipativi in cui si prospettava una mediazione tra politica, progettista e cittadini.

Certo, il cosiddetto “processo dal basso” può presentare dei limiti: ad esempio, se viene a mancare una visione “alta” che, cioè, superi quella della sfera individuale, soprattutto quando non si matura una vera coscienza collettiva, del bene pubblico.

L’urbanismo tattico, quindi, si pone come ulteriore terreno di mediazione, grazie alla snellezza delle procedure burocratiche richieste, alla freschezza delle idee, al suo basso costo delle realizzazioni – in piccole-medie aree di pertinenza del quartiere –, alla sua duttilità come di un corpo liquido che si infiltri nelle maglie già esistenti del territorio urbano, e capace di migliorare, rigenerare.

Può, infatti, contribuire a creare concrete possibilità di miglioramento della qualità e vivibilità dello spazio pubblico urbano, di crescita della socializzazione e culturale e di ripristino della legalità grazie a una valorizzazione o riformulazione di una cornice estetica spesso di alto valore comunicativo e di impatto visivo che trasmette immediata fruibilità, positività, bellezza; per osmosi, e  non è  un contributo secondario, può portare un possibile miglioramento delle microeconomie locali.

L’Urbanismo tattico è un vero e proprio volano di rinnovamento sociale ed economico che, a cascata, può avere ripercussioni su più territori, intendendo che i quartieri che formano la città, citando Bruce Sterling, sono come tante “isole nella rete”.

Quali sono gli interventi di urbanismo tattico più praticati?

Il lessico di cui si serve più comunemente l’urbanismo tattico è fatto spesso di aree gioco temporanee (“pop up”), punti ristoro, come caffè, in tema “Street food”, della pratica del depaving (rimozione di pavimentazione per trasformare passi carrai e parcheggi in spazi verdi), della pratica del chair- bombing (realizzazione di sedute fatte con materiali di recupero) o incremento vero e proprio di panchine, miglioramento dell’arredo urbano, perfezionamento dell’illuminazione pubblica, con forniture e installazioni a carico dell’amministrazione locale e abbattimento di barriere fisiche non necessarie.

In alcuni straordinari casi, c’è stato il coinvolgimento degli artisti, che hanno dato il loro contributo attraverso vere opere d’arte con funzione di riqualificazione condivisa e  fruibilità: basti pensare ai i tentativi ludici nelle aree del terribile terremoto del 2016 e 2017, con installazioni artistiche fruibili nel nuovo parco giochi di Amatrice; o alla eccezionale installazione permanente, pure utile e utilizzabile, nella forma di 12 panchine, di Alberto Garutti, Dedicato alle persone che sedendosi qui ne parleranno, 2009 (nell’ambito del progetto di Arte Contemporanea ALL’APERTO promosso da Fondazione Zegna), un lavoro dedicato a tutta la comunità partendo dalla mappatura delle frazioni di Trivero (Biella) e dei cani (Pulce, Sbadiglio, Lampo, Otto etc.) delle famiglie di Trivero.

Con l’aiuto degli alunni di una classe della scuola primaria, l’artista è entrato in contatto con le famiglie e con i possessori dei cani. Il risultato è un’opera pubblica che può essere utilizzata e adottata da tutti: una serie di panchine in cemento sulle quali siedono i cani ritratti dal vero” (cit.).

In altri contesti, a completare determinati progetti pubblici, si richiede l’intervento di uno o più Street Artisti ma, si badi bene, con opere non autoreferenziali ma che siano in sinergia con il luogo in cui sono realizzate: per rafforzarne l’identità molteplice e spesso multietnica che lo caratterizza e per rivolgere l’arte a tutta la collettività.

Un altro esempio in questo senso è il  progetto in fieri Magnifica Piazza Quinto Curzio nel VII Municipio di Roma. Qui, l’Associazione dal basso noprofit Retake Roma si sta ponendo proprio come soggetto promotore di una iniziativa di Urbanismo Tattico in collaborazione con l’istituzione cittadina e con soggetti privati, quali alcuni commercianti della zona.

Tale iniziativa punta molto sulla riqualificazione delle aree verdi lì da tempo abbandonate al degrado e all’incuria. Si tratta di un progetto pilota che dovrebbe vedere, nel tempo, Retake Roma proporre altre iniziative analoghe, almeno una per ogni municipio, e creare proprio quel citato virtuoso volano sociale ed economico.

Il verde pubblico e la Guerrilla Gardening.

Una componente fondamentale dei nuovi spazi pubblici urbani deve essere proprio il tema del verde, espresso fuori dalle grandi pianificazioni urbanistiche anche nella pratica dell’urbanismo tattico tramite laguerrilla gardening(giardinaggio libero, d’assalto). Un verde, cioè, non più inteso solo come scenografia ornamentale per abbellire piazze o viali ma come vera e propria infrastruttura ecologica per migliorare la qualità dell’aria, riducendo l’inquinamento atmosferico e abbattere le alte temperature registrate durante le ondate di calore, sempre più frequenti negli ultimi anni nelle grandi metropoli a causa del cambiamento climatico.

In sintesi: un verde pubblico che si faccia vero e proprio ripensamento ecologico, politica green…

In generale, quale dovrà essere il nostro impegno in futuro?

Il dramma che stiamo vivendo, a causa della crisi globale e, non ultima, della pandemia, rende ancor più necessario considerare le nostre città come laboratori di esperienza e di creatività, portatrici di nuova cultura umanistica, di nuovi valori per costruire una società migliore che si prenda cura dell’ambiente come del prossimo più fragile: per poter ricostruire dalle macerie e sopravvivere come homo sapiens urbani negli anni a venire.

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Paolo Di Pasquale si forma studiando prima Architettura poi Disegno Industriale a Roma, specializzandosi in Lighting design. Nel 2004 è co-fondatore dello STUDIOILLUMINA, dove si occupa principalmente di Architectural Lighting Design e Luce per la Comunicazione: lo Studio progetta e realizza allestimenti espositivi e museali, ideazione della luce, corpi illuminanti, scenografia notturna - nel settore della riqualificazione urbana e in progettazione di arredi (porti turistici, parchi, giardini, piazze etc.)-, piani della luce per alcuni Comuni italiani e spettacoli di luce. Nel 2007 fonda lo Studio BLACKSHEEP per la progettazione di architettura di interni e di supporto alla pianificazione di eventi, meeting e fiere. E' interessato alla divulgazione della cultura della luce e del progetto attraverso corsi, workshop, convegni e articoli. Ha insegnato allo IED e in strutture istituzionali. E’ docente di Illuminotecnica presso l’Istituto Quasar - Design University Roma di nel corso di Habitat Design e in quello di Architettura dei Giardini. E' Redattore di art a part of cult(ure) per cui segue la sezione Architettura, Design e Grafica con incursioni nell'Arte contemporanea. Dal 2011 aderisce a FEED Trasforma Roma, collettivo di architetti romani che si interroga sul valore contemporaneo dello spazio pubblico esistente, suggerendone una nuova lettura e uso con incursioni e azioni dimostrative sul territorio metropolitano.

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