La spazzatura che venne dallo Spazio e dagli Oceani

Tita Salina, 1001st island - the most Sustainable Island in Archipelago, 2015

Ogni anno divoriamo miliardi di tonnellate di risorse naturali per produrre beni di consumo. Ma, se consideriamo risorse l’aria, acqua, minerali, gas naturali, petrolio, suolo e foreste, sappiamo che esse non sono inesauribili.

Un recente studio americano – Prima analisi globale di massa di tutta la plastica prodotta – ci dice, per esempio, che uno dei materiali di più largo consumo, la plastica e tutti i suoi derivati, è davvero ovunque e che il pianeta Terra è schiacciato da una montagna di rifiuti. La plastica dagli anni ‘50 del XX secolo è stato prodotta in circa in 9 miliardi di tonnellate di cui si calcola che solo il  9% è stato riciclato, il 12% è stato incenerito e il restante 79% gettato in discarica o nell’ambiente, soprattutto nei mari e negli oceani.

Molti artisti, sensibili al problema, hanno reso una particolare lettura della questione come ha fatto, ad esempio, Maria Cristina Finucci – anche architetto e designer – che ha fondato  nel 2013 il Garbage Patch State nel mondo, uno Stato identificabile con le isole di plastica presenti nell’Oceano, che richiama evidentemente il Pacific Trash Vortex, o Great Pacific Garbage Patch (grande accumulo di immondizia galleggiante nell’Oceano Pacifico, approssimativamente fra il 135º e il 155º meridiano Ovest e fra il 35º e il 42º parallelo Nord). L’artista indonesiana Tita Salina ha invece realizzato un’isola e poi installazione titolata 1001st island – the most Sustainable Island in Archipelago, 2015, collaborando con i pescatori locali per raccogliere i rifiuti di plastica nella baia di Jakarta, equivalente al volume di rifiuti che una persona produrrebbe in 50 anni.

Tita Salina, 1001st island – the most Sustainable Island in Archipelago, 2015
Tita Salina, 1001st island – the most Sustainable Island in Archipelago, 2015

 

Questo scenario, fatto di rifiuti ammassati e in continuo aumento, potrebbe diventare ben peggiore, se non si adottano dei provvedimenti seri e strutturali: se si continua con gli attuali ritmi, oltre 13 miliardi di tonnellate di rifiuti di plastica invaderanno l’ambiente entro il 2050.

Per invertire questa tendenza nell’immediato ci si deve porre come primo obiettivo l’adozione di comportamenti individuali più responsabili ed orientarli verso una economia circolare che ha tra le sue prime caratteristiche l’uso della filiera del riciclo.

Questa circolarità virtuosa deve essere considerata nelle varie discipline e nella vita quotidiana: dai progettisti, per ripensare i processi produttivi e l’obsolescenza dei prodotti; e  dai consumatori finali. Vanno, quindi, rivisti il concetto stesso e la vita di ogni oggetto, che dovrebbe e dovrà essere sempre fatto con materiali riciclabili da considerare, pertanto, continuamente una risorse e non più rifiuti.

Tale processo, se sempre rispettato – quindi attivato tramite nuovi impianti ecologici e rispettosi della prassi del riciclo – oltre a contribuire alla sostenibilità ambientale riducendo le emissioni di gas serra, potrebbe creare posti di lavoro e ricchezza al pari del petrolio e del gas naturale.

Ideare, produrre rispettando tale risorsa, ovvero riutilizzare e trasformare, è quindi la nuova frontiera su vasta scala per una produzione industriale e creativa che si palesi etica e consapevole e ci allontani da una sindrome di Kessler da “prigionieri sul nostro pianeta”.

 

Infatti, fu proprio Donald J. Kessler, consulente della NASA, che nel 1978 immaginò tale oscuro scenario: sostenne, già allora, che il volume di detriti spaziali che si trovano nell’orbita bassa intorno alla Terra un giorno sarebbe diventato  così elevato che gli oggetti nello spazio sarebbero entrati sempre più spesso in collisione tra loro, creando una reazione a catena con incremento esponenziale del volume dei detriti stessi e quindi del rischio di ulteriori impatti estesi ad effetto domino. La conseguenza diretta di tale scenario, è assai concreta: il crescente numero di rifiuti in orbita renderebbe impossibile per molte generazioni l’esplorazione spaziale e anche l’uso dei satelliti artificiali necessari a gestire anche le sole reti della telecomunicazione dell’intero pianeta.

Questo enorme discarica disseminata tra l’atmosfera e la parte bassa delle Fasce di Van Allen (compresa tra i 300 e i 1000 km di altezza)  è costituita da detriti prodotti dal disuso di satelliti in orbita, da sonde, pannelli solari, serbatoi esausti, frammenti metallici, parti di navicelle, batterie, o utensili andati perduti durante missioni spaziali. Potrebbero, addirittura, essere semplici scaglie di vernice.

Alcuni rifiuti situati nell’orbita bassa dell’atmosfera finiscono per polverizzarsi attraversandola; altri, invece, troppo lontani, rimangono intrappolati in orbita per moltissimi anni, anche secoli.

E’ stata persino calcolata l’entità di questi detriti nello Spazio, che sembra ammontare a circa 8000 tonnellate.
Il problema  più grande è che i detriti di dimensioni inferiori a 10 cm sono impossibili da intercettare e possono costituire un vero pericolo per gli altri satelliti in orbita.

Ricostruzione digitale della reale localizzazione dei detriti intorno alla Terra (NASA Debris-GEO1280)

 

Uno studio del 2015 ci dice che da quando il primo satellite artificiale, lo Sputnik 1, venne lanciato dall’allora Unione Sovietica nel 1957 abbiamo raggiunto 14.022 satelliti che girano intorno alla Terra, di cui il 78% non sono più in funzione, e il loro numero è destinato in futuro sempre di più ad aumentare.

Il pericolo può essere grande anche per gli stessi astronauti impegnati in navicelle o nella ISS – International Space Station, già colpita nel 2016 da un minuscolo frammento che ha lasciato una piccola scalfittura di circa 7mm in una delle superfici vetrate della cupola, probabilmente causata da un frammento di vernice o un corpuscolo metallico di pochi millesimi di millimetro. Va considerato che questi detriti viaggiano ad una velocità elevatissima (più alta di un proiettile, calcolando che una pistola di medio calibro raggiunge i 800m/sec), con possibili  effetti devastanti se venissero in collisione con satelliti e con astronauti impegnati in attività EVA (Extra-vehicular activity).

La possibilità che uno di questi eventi avvenga è raccontato anche nel film del regista messicano Alfonoso Cuaròn, Gravity (2013), dove due astronauti (Sandra Bullock e George Clooney), impegnati all’esterno di uno Shuttle per apportare una manutenzione sul telescopio spaziale Hubble, sono investiti da un’ondata di detriti generata da una reazione a catena con risultati devastanti e molto credibili.

Sindrome di Kessler fotogramma dal film Gravity 2013
Fotogramma dal film Gavity 2013

 

Un simile accadimento nefasto, raccontato nel film, che ha anticipato una parte di quanto avvenuto realmente nell’ISS del 2016, si è ripetuto in una più recente missione (del 16 novembre 2020) della navicella Dragon 2, che ha dovuto fare una piccola variazione di rotta proprio per evitare di entrare in collisione con uno dei tanti rifiuti spaziali.

In che modo risolvere problema? Le due maggiori agenzie spaziali, l’ESA (European Space Agency) e la NASA stanno pensando ad alcune soluzioni di ADR (rimozione attiva dei detriti): il 2 aprile del 2018 è già iniziata una  fase di sperimentazione con il lancio del razzo di carico Falcon 2 SpaceX con a bordo la navicella RemoveDebris, dalle dimensioni di una lavatrice; questa, arrivata a destinazione sulla ISS, è stata spacchettata dagli astronauti e messa in orbita.

Il 16 settembre dello stesso 2018 l’apparato ha dimostrato con successo la sua capacità di utilizzare una rete per catturare un bersaglio simulato, mentre l’8 febbraio 2019 un suo arpione è stato sparato ad una velocità di 20 metri al secondo penetrando un altro bersaglio simulato. In entrambi i casi, il dispositivo adotta praticamente le stesse tecniche della pesca d’altura.

Alla fine dei suoi esperimenti di cattura-detriti, la navicella tornerà sulla Terra ma testando la futura tecnologia di de-orbiting, evitando, cioè, di bruciare una volta entrata in contatto con l’atmosfera e di diventare essa stessa, quindi, “spazzatura spaziale”. Ciò tramite il dispiegamento di una grande, resistentissima vela di 10 metri cubi, che attenuerà la sua velocità di discesa.

Tutte le strategie messe in campo per contrastare l’immenso accumulo di rifiuti, trasformandolo in risorse rinnovabili, unitamente al taglio delle emissioni inquinanti, e i tentativi e le azioni per sensibilizzare le politiche mondiali verso questo articolato problema planetario, non fermano un altro processo innescato prevalentemente dall’attività dell’essere umano: il riscaldamento globale.

Gli ultimi studi al riguardo ci dicono che abbiamo superato il punto di non ritorno e se anche riuscissimo di azzerare le emissioni inquinanti, l’Artico continuerebbe a sciogliersi così come il suo prezioso permafrost. Le conseguenze hanno già innescato un altro effetto domino.

Che fare? Confidare nelle incredibili capacità di rigenerazione e di resilienza che il nostro pianeta ha sinora dimostrato di avere, e continuare a modificare il nostro stile di vita e ogni produzione umana portandola verso modalità ecosostenibili ed ecocompatibili. Questa è la  sfida del presente e del futuro per la sopravvivenza delle prossime generazioni e della Terra.

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Paolo Di Pasquale si forma studiando prima Architettura poi Disegno Industriale a Roma, specializzandosi in Lighting design. Nel 2004 è co-fondatore dello STUDIOILLUMINA, dove si occupa principalmente di Architectural Lighting Design e Luce per la Comunicazione: lo Studio progetta e realizza allestimenti espositivi e museali, ideazione della luce, corpi illuminanti, scenografia notturna - nel settore della riqualificazione urbana e in progettazione di arredi (porti turistici, parchi, giardini, piazze etc.)-, piani della luce per alcuni Comuni italiani e spettacoli di luce. Nel 2007 fonda lo Studio BLACKSHEEP per la progettazione di architettura di interni e di supporto alla pianificazione di eventi, meeting e fiere. E' interessato alla divulgazione della cultura della luce e del progetto attraverso corsi, workshop, convegni e articoli. Ha insegnato allo IED e in strutture istituzionali. E’ docente di Illuminotecnica presso l’Istituto Quasar - Design University Roma di nel corso di Habitat Design e in quello di Architettura dei Giardini. E' Redattore di art a part of cult(ure) per cui segue la sezione Architettura, Design e Grafica con incursioni nell'Arte contemporanea. Dal 2011 aderisce a FEED Trasforma Roma, collettivo di architetti romani che si interroga sul valore contemporaneo dello spazio pubblico esistente, suggerendone una nuova lettura e uso con incursioni e azioni dimostrative sul territorio metropolitano.

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