Dell’Afghanistan non posso farne a meno. Intervista con Lorenzo Peluso autore de I Giardini di Bagh – E Babur

immagine per Lorenzo PelusoUn appuntamento letterario particolare ha concluso l’agosto di Storie…in piazza, la popolare rassegna estiva dedicata alla cultura, promossa dal comune cilentano di San Giovanni a Piro.
Ospite dell’incantevole borgo marinaro di Scario è stato il giornalista salernitano Lorenzo Peluso con I giardini di Bagh-e Babur che costituisce uno dei rari casi di espressione letteraria di guerra vissuta da parte di un giornalista-autore italiano del nuovo millennio.

L’ingresso è in penombra: sul lato sinistro dell’atrio una scala protetta da un corrimano in ferro, ben lavorato, che conduce al piano superiore. Sul lato destro, invece, l’ingresso a quella che appare come una saletta per la mensa.
Spiccano all’interno i colori intensi del blu delle pareti che si illuminano da due finestroni che danno su un giardino spoglio, senza aiuole verdi né fiori; al centro dello stesso un’altalena sbilenca, rotta, arrugginita ecco, di certo non funzionante.
L’orfanotrofio di Herat.
Una delle educatrici, una ragazza di circa 25 anni, così appare, con il capo coperto dal velo, ci accoglie, e sono certo solo per- ché evidentemente non si può rifiutare. Lo si capisce subito che non gradisce essere fotografata, né tantomeno essere guardata. Tuttavia, fa il suo lavoro. Togliamo velocemente elmetti e gap di protezione, li lasciamo lì, nell’atrio uno accanto all’altro. Saliamo le scale, in silenzio quasi.

Dal piano di sopra arriva qualche vocina, dolce. Una porta bianca al centro di un corridoio stretto e in penombra. Si apre la porta e tutto cambia. Sedute le une accanto alle altre, con le gambe incrociate, appoggiate ai muri laterali di uno stanzone, decine di bambine. Sorridono, bisbigliano tra loro. Si ritraggono e provano a nascondere il viso. Alcune, rinchiuse in piumoncini di un rosso sgargiante che rendono quei visi ancor più dolci e commoventi. Scoprirò poi che quei cappottini sono frutto di una recente donazione di una ONG.

Ve ne sono alcune piccolissime, 3 anni non di più; altre che ne dimostrano 11, forse 12 in qualche caso.
Il silenzio è rotto solo da qualche bisbiglio e dalle parole che l’educatrice pro- nuncia con l’interprete che a sua volta prova a riferirci. Nell’aria si avverte un odore stantio che si mescola a quel profumo tenero della pelle dei bambini. Confesso di aver messo in atto una furbata; l’esperienza aguzza l’ingegno, certo. In verità, però, l’ho fatto solo per quel senso di estrema umanità che l’idea di andare nell’orfanotrofio, quella mattina, a mensa prima di uscire dalla base, mi era balenata per la testa. Nel mio inseparabile zaino, dove porto la macchina fotografica, avevo infilato alcune confezioni di biscotti che avevo trafugato in mensa. Ecco, confesso, sì, ne avevo prese alcune con il preciso intento di donarle a quelle bambine. In realtà si rivelò un’ottima idea.

Quando mi avvicinai a quei visini che provavano a ritrarsi dalla mia macchina fotografica, d’istinto tirai fuori con una mano dallo zaino una confezione di biscotti; stesi la mia mano verso una di loro che sorrise e afferrò quel piccolo dono. In quell’istante un mormorio arricchì quello strano silenzio che in pochi istanti divenne un brusìo e poi il suono di sorrisi e di frasi pronunciate, che non comprendevo, ma di cui mi era chiaro il senso: anche a me, anche a noi. In ginocchio, davanti a quelle bambine scorrevo davanti a ognuna di loro, aprivo quelle confezioni di biscotti, nel timore non mi potessero bastare e porgevo quel piccolo e insignificante dono tra quelle manine aperte e tese verso di me. Sembravano non aver più timore di quello sconosciuto e della sua macchina fotografica.

Io, avido di dettagli, soprattutto di occhi e di emozioni, continuavo a scattare foto. Volti dolci, altri tristi, alcuni impauriti. Occhi grandi, lucidi, sorridenti. Mi guardavo intorno, provavo a scrutare l’essenza di quel luogo. Lungo le pareti, porte di colore bianco che davano ingresso a camere da letto. All’interno lettini a castello posti in fila, come quelle camerate in caserma, quando ancora la leva era obbligatoria. Dal soffitto in alcune di loro cadevano verso il basso stelle di carta colorate, appese a fili di nylon.

L’opera è un reportage che contiene una parte narrativa molto coinvolgente e ricca di opportunità emotive e una parte saggistica in cui, con assoluta proprietà di investigazione, Peluso tratta temi che sono di grande attualità, come il teatro di guerra tuttora aperto in Afghanistan, in Siria, in Iraq, con specifico riferimento alla questione curda che nella narrazione assume una sua centralità; un libro che è anche premonitore in quanto la Turchia non aveva ancora attaccato i territori curdi, eppure Peluso lo sa e traspare dal suo scritto: un unicum nella bibliografia di settore dove non c’è traccia di alcun’altra documentazione che tratti del Kurdistan iracheno.

Un viaggio umano e fotografico tra le aree più calde del Medio Oriente, dall’Iraq all’Afghanistan, in luoghi distrutti, dove ci sono morti, speranze infrante e terre macchiate dal sangue. Lorenzo Peluso prende per mano il lettore italiano e lo guida, attraverso uno stile agile ma dettagliato, tra le retrovie dei conflitti armati e i retroscena delle stanze dei bottoni, senza però mai tralasciare i lati più drammaticamente umani del conflitto.

Ad accompagnare i presenti nel viaggio letterario sulla via dell’Oxiana, Franco Maldonato, Direttore del Polo Museale e Michela Riviello dell’Associazione “Il vento del Bulgheria”.

Al termine della presentazione del libro, abbiamo incontrato l’autore per un approfondimento su alcuni dei temi trattati.

La sua opera è una finestra sul Medio Oriente che riassume tanti significati: un’espressione geografica, la culla di alcune tra le più importanti civiltà del mondo ma anche un groviglio dove politica e religione sono in lotta perenne per affermare la supremazia di rispettivi blocchi di potere. Qual è il vero volto del Medio Oriente e cosa può dirci chi ha calpestato quei territori?

Calpestando la sabbia tra il Tigri e l’Eufrate senti la responsabilità della storia, ma anche il fascino del luogo senza tempo, dove tutto ha avuto inizio. Credo che il Medio Oriente sia anche la giusta metafora delle contraddizioni dell’essere umano. Il Medio Oriente è Il luogo dove la pace è predicata da tutti, ma dove tutti, nonostante tutto, sono pronti a fare la guerra. Un luogo che custodisce ricchezze straordinarie, ma dove vivono persone cui manca l’essenziale.

Dal punto di vista geografico, il Medio Oriente è un’area molto vasta e complessa che spazia dalle sponde del Mediterraneo, da Beirut, passando dalle colline del Golan in Libano, fino alla penisola arabica. In mezzo la Siria, l’Iraq, la Giordania, Israele. L’Iran.
Dal Medio Oriente vi è la porta all’Asia, dunque l’Afghanistan. Una terra dove sono costretti a vivere insieme arabi, mussulmani e cristiani. Un luogo dove nel condividere la terra, la politica, gli usi e i costumi, è fin troppo facile scontrarsi perennemente, nella coesistenza di sciiti e sunniti, ortodossi, cattolici ed ebrei. Ognuna di queste guerre ha le sue motivazioni e ognuno di questi popoli, ha le sue ragioni.

Tutti hanno delle pretese, anche giuste. Tutti odiano tutti e amano tutto. Uno dei luoghi più belli e intensi del pianeta ma anche tra quelli più martoriati al mondo.

Otto sono stati i suoi viaggi in Afghanistan e nel suo libro scrive di “non poterne fare a meno “. Cosa l’affascina di questo Paese?

L’Afghanistan, di cui sono profondamente innamorato, è molto altro rispetto a ciò che raccontiamo e che conosciamo. È terra di cultura millenaria, semideserta ma popolata dal ricordo di Alessandro Magno o di Marco Polo, dove esistono luoghi con testimonianze meravigliose di molte civiltà.

C’è poi il cielo che merita uno spazio a sé: l’Afghanistan è il luogo più bello da cui poterlo osservare perché ha una latitudine differente e le stelle, di una luminosità unica, sono vicine tra loro; si viene rapiti da un misticismo che fa sbandare perché la bellezza è tale da stravolgere l‘anima. E a proposito di bellezza, parliamo degli afghani, un popolo fiero e orgoglioso che discende da Moghul, una dinastia di Imperatori con una tradizione straordinariamente importante di guerrieri, per la quale l’unità e l’onore sono al centro dell’elemento culturale nella costruzione della persona della società afghana.
In termini invece di geopolitica l’Afghanistan è un Paese invece che ogni anno, nel mese di giugno, fa partire dieci miliardi di dollari di oppio che invadono l’Occidente.

Questa è la ragione per cui si combattono guerre che non finiranno mai in questo Paese perché al centro della motivazione economica afghana c’è la gestione, il controllo della coltivazione, produzione, trasformazione ed esportazione di, appunto, dieci miliardi di dollari di oppio. La guerra alimenta inoltre l’economia delle armi ma è anche distruzione e ricostruzione, cambio di poteri tra diversi clan ed etnie. La guerra è contrattare, è ottenere ed è sopratutto potere. In questo l’Occidente e l’industria delle armi hanno una loro funzione e i loro guadagni anche se la guerra esiste da quando esiste l’uomo, anzi forse sarebbe meglio dire da quando l’uomo ha compreso che l’erba del vicino è sempre più verde.

Perché ha scelto come titolo per la sua opera I giardini di Bagh e Babur e cosa rappresentano?

Sono un luogo simbolo di Kabul, non solo perché lì è stato sepolto Babur, il primo Imperatore Moghul, ispiratore della cultura del popolo afghano, ma sono soprattutto un luogo simbolo perché sono stati distrutti una prima volta negli anni ‘80 dai Russi e una seconda volta a metà degli anni 90 dai Talebani.

È un luogo di aggregazione e di cultura dove i cittadini di Kabul amano passeggiare. Ho dato questo titolo al libro perché il giorno in cui mi sono trovato lì sono stato investito da emozioni e sensazioni davvero incredibili: al di là della storia di Babur che è molto intrigante, ciò che mi ha colpito è stato il suo testamento in cui afferma che se esiste un Paradiso in terra dove vivono le anime di coloro che hanno lottato e si sono battuti per i diritti dei più deboli, in particolare per la libertà; ecco perché sono stato immediatamente ispirato e non ho esitato a sceglierlo come titolo per il libro.

L’Afghanistan resta tra i Paesi peggiori al mondo dove nascere donna: l’85% è senza istruzione, la metà si sposa prima dei sedici anni contro il proprio volere.

La donna afghana negli ultimi anni si è evoluta molto e ha ripreso un ruolo sociale importante, ha riconquistato uno spazio che paradossalmente le apparteneva nel passato: Kabul negli anni ’60 e ‘70 era meta degli hippy a testimonianza della libertà di costumi e di atteggiamento in cui la donna aveva un ruolo assolutamente centrale nella libertà del pensiero; erano molte le donne impegnate in politica come nell’istruzione e all’università. Sono stati i talebani a cancellare i diritti della donna in Afghanistan: hanno interpretato arbitrariamente alcuni passaggi del Corano e reciso letteralmente quella che è la figura femminile.

Per oltre vent’anni la donna ha vissuto nel terrore più assoluto, non solo perché a due generazioni di bambine è stata negata l’istruzione, ma soprattutto perché ancora prima del compimento dei 14 anni, ovverosia quando si sviluppano le forme nell’evoluzione del corpo, le adolescenti sono state completamente “rinchiuse” in un velo islamico che non hanno più potuto dismettere. Un paradosso assoluto della loro cultura degli ultimi trenta anni è legato al fatto che la donna afghana acquisisce un ruolo sociale solo quando diventa suocera ed esercita il potere sulla nuora. Altra aberrante consuetudine che fa ben comprendere quanto sia radicato il sessismo, riguarda le sepolture senza nome nei cimiteri. Sono tutte sepolture appartenenti alle donne, come se si volesse letteralmente cancellare l’identità.

Seppure qualche passo avanti per il riconoscimento dei loro diritti e della loro libertà sia stato fatto, il futuro è una grossa incognita poiché purtroppo nell’ultimo anno i talebani hanno ripreso il controllo dell’80% del Paese che è stato consegnato a loro nella gestione e nel governo dalle Forze di coalizione internazionale che si stanno ritirando.

Che cosa spinge un cronista a fare l’inviato di guerra?

Sono stato sempre convinto che una delle grandi virtù dell’essere umano sia la curiosità. Che cosa saremmo stati senza la curiosità di Marco Polo o di Colombo? Credo che chi si incammini sulla strada di questo mestiere ad un certo punto deve avvertire la necessità di dare sfogo al bisogno di conoscenza; credo sia il motore che muove ogni azione e pensiero di chi ama la vita.

Se fai questo mestiere, se lo senti dentro come l’essenza dell’aria che respiri, se neppure ti accorgi quando dialoghi con le persone, che stai approfondendo, cercando di comprendere ogni sfumatura di ogni aspetto di cui si racconta, insomma credo che poi magari un giorno ti potrai ritrovare a voler capire, comprendere, vedere, cosa accade in luoghi che vivono la guerra.

Senti il dovere di raccontare e dare voce a coloro che voce non ne hanno. L’essenza di questo mestiere è raccontare ciò che si vede con i propri occhi. Penso sia questo ciò che mi ha spinto a intraprendere questo percorso.

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Si laurea in Scienze della Comunicazione con indirizzo impresa e marketing nel novembre del 1998 presso l'Università La Sapienza di Roma; matura circa dodici anni di esperienza presso agenzie internazionali di advertising del Gruppo WPP - Young&Rubicam, Bates Italia, J.Walter Thompson - nel ruolo di Account dove gestisce campagne pubblicitarie per conto di clienti tra cui Pfizer, Johnson&Johnson, Europcar, Alitalia, Rai, Amnesty International e Ail. Dal 2010 è dipendente di Roma Capitale e attualmente presta servizio presso l'Ufficio di di Presidenza del Municipio Roma XIV dove si occupa di comunicazione istituzionale, attività redazionale sui canali social del Municipio e piani di comunicazione. Ama viaggiare e leggere.

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