Nelle sale del PAN, Palazzo delle Arti di Napoli, è allestita la mostra personale del fotografo Giorgio Cutini e intitolata Le città di Jo Kut: 25 fotografie in bianco e nero che raccontano tre metropoli diverse, Napoli, Roma e la città immaginaria di Jo Kut.
Dalla filosofia alla pittura, dal cinema alla fotografia, ogni artista o intellettuale ha elaborato e interpretato gli spazi urbani, una commistione tra il razionale e l’irrazionale, tra il realistico e l’onirico.
Per molti secoli gli artisti hanno focalizzato la loro attenzione sulla “città ideale”, una visione razionale e perfetta del contesto urbano, ma al tempo stesso, alienante e straniante, cinica e distaccata.
Un esempio è la Città ideale di autore sconosciuto, un dipinto del 1480-90 custodito alla Galleria Nazionale delle Marche ad Urbino, oppure la La città del Sole del 1602 di Tommaso Campanella, un trattato filosofico in cui ogni singolo aspetto della vita all’interno della città è rigidamente regolato.
Di connotazione completamente diversa sono le immagini e le riflessioni sulle città del Novecento, in cui prevale una visione onirica; un esempio di questa cifra stilistica è Giorgio Cutini, artista che potrebbe essere considerato la trasposizione fotografica del cinema espressionista tedesco, in cui l’interpretazione della realtà si dissociava dall’arte tradizionale.
Un sottile fil rouge lega il fotografo umbro-marchigiano e il regista di Metropolis Fritz Lang, accomunati da una panoramica irrazionale della città e dell’individuo; se per lo storico regista questo sfocia nell’oppressione e nell’annullamento dell’ essere umano, generando sentimenti di angoscia nello spettatore, Cutini riesce, attraverso la fotografia, a restituire all’osservatore una visione libera ed emozionale della città e del mondo circostante.
Osservando le sue foto, si potrebbe pensare ad una rappresentazione di una realtà caliginosa, di un ipotetico nonsense. La natura geniale di Cutini sta nel trascinare il fruitore verso un mondo indefinito, innescando processi neurobiologici che sottendono ai sentimenti.
Le foto che immortalano Roma, ad esempio Piazza Argentina e i Fori imperiali, sono i luoghi di maggiore afflusso nel centro della città, caratterizzati dal passaggio di migliaia di persone ogni giorno.
L’artista riesce a conferire a questi ambienti un punto di vista personale, ribalta la percezione dello spazio e del tempo, mostrandone la componente sentimentale e irrazionale; nelle sue opere si percepisce il rumore del vento degli alberi presenti nei siti archeologici, generando un paradigma individuo/emozione, spazio/interazione.
Interessanti sono le due foto che immortalano le Terme di Agnano e Sotterranea a Napoli, una rappresentazione della città partenopea lontana da certi clichè, non stereotipata.
L’artista è un flaneur di baudelaireiana memoria, un cacciatore di sensazioni, alla costante ricerca del nutrimento dell’anima, e proprio nella antica Partenope ha trovato terreno fertile.
Se le terme sono la proposizione di una immagine non convenzionale della città napoletana, in Sotterranea è evidente la ricerca delle emozioni, della sua essenza, delle sue viscere, dove il silenzio e lo spazio ci fanno riscoprire i nostri paesaggi dell’anima, quelli latenti, quelli di intensa umanità.
Interessante per stile e significato la foto Sonata, in cui le singole corde del pianoforte toccano la nostra profondità interiore. Questo metafora del viaggio in noi stessi prosegue parallelamente al percorso espositivo, osservando la foto che dà il titolo alla mostra, La città di Jo Kut.
Ciò che colpisce è il vortice di trepidazioni che essa genera, attivando una vera e propria polisensorialità. In questa immagine l’artista trascina il fruitore in un territorio inatteso, in un luogo non fisico ma immaginario, della mente: è una foto realizzata seguendo il flusso di coscienza. James Joyce asserì che: “Voi trovate le mie parole oscure. L’oscurità è nelle vostre anime, non vi pare?”.
Partendo da questa singola affermazione, ciò che accomuna il fotografo allo scrittore irlandese è una narrazione dei sogni e dei sentimenti attraverso quel citato flusso di coscienza: si tratta di due diversi artisti che fanno della sperimentazione l’elemento caratterizzante della loro produzione artistica.
Cutini interpreta e rielabora le parole di Joyce, come uno sprone ad osservare la realtà e le città che edifichiamo in noi stessi, il nostro mondo interiore, che egli ci vuole portare ad analizzare da una prospettiva diversa, seguendolo, quel flusso di coscienza, inarrestabile, incontrollabile, cercando le emozioni positive, le passioni, il vivere e non il sopravvivere; ci dice di non lasciarci sopraffare dall’oscurità e di costruire città immaginarie, città dei sogni, dei desideri, come nelle Città Invisibili di Italo Calvino, in cui l’autore ricorre alla tecnica della letteratura combinatoria.
Il protagonista Marco Polo afferma: “Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una, né l’altro, bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.”
In effetti, Cutini invita a non indugiare, a lasciarsi andare, a lasciar fluire: a vivere.
- Giorgio Cutini | Le città di Jo Kut
- fino al 20 febbraio 2018
- PAN, Palazzo delle Arti di Napoli
- www.comune.napoli.it/pan/
Luca Del Core, vive e lavora a Napoli. E' laureato in "Cultura e Amministrazione dei Beni Culturali" presso l'Università degli Studi "Federico II" di Napoli. Giornalista freelance, ha scritto per alcune riviste di settore, per alcune delle quali è ancora redattore, e attualmente collabora con art a part of cult(ure). La predisposizione ai viaggi, lo porta alla ricerca e alla esplorazione delle più importanti istituzioni culturali nazionali ed internazionali, pubbliche e private.
Davvero un autore particolare. Splendido articolo.