Modalità: No Humans

immagine per Modalità: No Humans mostra collettiva

La crisi dei valori ripresa dal filosofo Zigmunt Bauman (1925-2017), nel suo libro Modernità Liquida, basata sui concetti che considerano l’esperienza individuale e le relazioni sociali segnate da caratteristiche e strutture che si vanno decomponendo e ricomponendo rapidamente, in modo vacillante, incerto, fluido e volatile, trovano una corrispondenza creativa e visiva anche nel mondo dell’arte.

Se da una parte la tecnologia e l’innovazione, due elementi su cui l’attuale società basa la visione della propria esistenza è proiettata sempre di più verso il futuro, dall’altro, il progresso non sempre porta benefici alla collettività, in quanto l’alterazione dello status psichico dell’individuo comporta uno svuotamento delle sue emozioni.

L’alienazione cerebrale produce una serie di ripercussioni visibili nel paesaggio urbano e naturale, rendendo quest’ultimo sempre più fragile e ribelle all’azione umana. La visione antropocentrica dell’uomo tende man mano a scomparire, lasciando un vuoto fisico, dove la sua presenza nello spazio è soltanto percepita.

Queste riflessioni trovano un fondamento estetico e sensoriale nella mostra collettiva degli artisti Güler Ates, Jean Michel Bihorel, Patrick Jacobs, Federica Limongelli, Suzanne Moxhay, Barbara Nati, Helene Pavlopoulou e Simon Reilly, dal titolo No Humans, allestita nelle sale della Andrea Nuovo Home Gallery, in via Monte di Dio 61, a Napoli, curata da Massimo Sgroi, fino al 7 gennaio 2022. Vulnerabile agli effetti della globalizzazione, la figura dell’individuo è il focus della sala principale, a cui segue il percorso al piano superiore dello spazio espositivo, dove si perde completamente la presenza umana per lasciare spazio ad una rappresentazione in cui restano soltanto delle tracce del suo passaggio.

Ad accogliere i visitatori sono le due tele, Libertà e Mirror as Parallell Universes, di Helene Pavlopoulou (1974), allieva di Dimitris Mytaras, laureata in incisione presso la Scuola di Belle Arti di Atene. Libertà è un dipinto che ha una duplice narrazione. Da una parte vi è il corteo di protesta del popolo greco negli anni della crisi economica che investì tutta l’Europa nel 2010, dall’altro, in antitesi al dinamismo e alla tensione dei manifestanti, vi è raffigurata sul lato sinistro, la chiesa di Santa Chiara di Napoli.

L’ossimoro visivo ha come obiettivo il raggiungimento di una ritrovata spiritualità che possa dare serenità nei momenti difficili. A contribuire a tale scopo, è il colore blu ampiamente utilizzato e che rievoca le volte celesti dei luoghi di culto. Corpi e volti si trasformano in fantasmi evanescenti, dove la Pavlopoulou ne tiene vivo il ricordo attaverso la memoria.

Spettrali e concrete sono le immagini digitali di Federica Limongelli, laureata in Restauro Conservativo ed Estetico della pittura, presso l’Istituto d’Arte Antica di Genova.

Nelle due opere esposte, Twins 1.1 e Twins 5.0, mostra il disagio della condizione femminile, acuita dalla disgregazione dei rapporti umani e sociali, dove la donna finisce per essere vittima dei pregiudizi. La sovrapposizione dei due volti femminili, di cui uno dei due senza la bocca, oltre ad attestare l’incomunicabilità fra i sessi, evidenzia una mancanza di dialogo anche verso sé stessa, in quanto la crisi dei valori comporta un forte disagio emotivo personale, quello di sentirsi inadeguati.

Sempre la donna è la protagonista delle opere di Güler Ates (1977), laureata al Royal College of Art di Londra, con un Master in Fine Art. L’artista esplora la sua esperienza di identità, diaspora e spostamento culturale. In Presence of Absence (II) e Oude Kerk (I), riprende come modello di riferimento il velo islamico, eco della sua eredità orientale, contestualizzandolo in sontuosi spazi architettonici.

Fonte di ispirazione sono i dipinti degli antichi maestri olandesi come Johannes Vermeer (1632-1675). Si nota un certo virtuosismo stilistico nella padronanza della luce, della composizione e del colore. Le sue figure velate emergono da uno sfondo scuro e creano delle apparenze fluide e fluttuanti. Si assiste ad una presenza/assenza mediata dal hijab, dove quest’ultimo risulta una protezione, una barriera di separazione posta davanti per sottrarre la propria vista ad una meschina collettività.

A differenza degli artisti precedenti, Suzanne Moxhay (1976), laureata alla Royal Academy Schools di Londra, ribalta il punto di vista della descrizione, eliminando completamente la visione dell’essere umano dall’opera, per una narrazione dove la sua presenza è percepita attraverso le tracce e i segni lasciati dal suo passaggio.

In Approach, Casement e Hybrid, crea un lavoro nel quale i confini tra fotografia e pittura vengono offuscati. Le sue misteriose stampe digitali, ambientate in case fatiscenti e abbandonate rimandano alle atmosfere metafisiche. Una strana tensione e un senso di sospensione emerge dalle tre istantanee, caratterizzate da Madre Natura che si riappropria dei suoi spazi, dove le tracce dell’individuo vengono lentamente cancellate dal processo di sostituzione.

Della stessa caratura sono i lavori di Barbara Nati (1980), che ha studiato alla Parson School of Design di New York. Le sue composizioni ibride, Inverted Kingdoms n.4 e Inverted Kingdoms n.5, sono collage digitali con mondi surreali, una abbondanza di vegetazione si estende su tutto il campo compositivo.

Semafori, segnaletica stradale e spartitraffico sono gli unici elementi che rimandano all’organizzazione di una società ormai dissolta. Queste immagini sono un vero e proprio je accuse della violenza perpetrata contro l’ambiente, della volontà di eliminare ciò che, invece, dovrebbe essere tutelato. Foto che mostrano delle analogie concettuali con l’istantanea, Gas:Shell, di David LaChapelle (1963).

Immagini digitali, sospese tra fantasia e realtà, con dettagli del mondo della natura e architetture oniriche, sono la cifra stilistica di Jean Michel Bihorel (1988), che, dopo aver terminato gli studi nella scuola di animazione in Francia, dal 2008 realizza film, lungometraggi e spot pubblicitari. E’ in mostra con quattro opere, due stampe, Sedimental Memories e Strange Universe, e due video, in cui gli elementi naturali non muoiono mai.

Sono proprio questi ultimi a prevalere su tutta la superficie delle foto. Paesaggi innevati o lussureggianti sono le uniche presenze organiche. Attraverso la luce, l’artista esalta la percezione dei volumi: montagne, piante e alberi diventano quasi afferrabili.

Se da una parte abbiamo la presenza o la smaterializzazione dell’individuo, dall’altra, c’è chi come Simon Reilly, dopo gli studi di arte all’Università di Belfast durante il nadir del conflitto in Irlanda del Nord, focalizza l’attenzione sugli aspetti psicologici dell’essere no humans.

Nei suoi dipinti, Synapses, emerge la connessione funzionale tra due cellule nervose e l’organo periferico di reazione. Si osserva la reazione chimica delle sinapsi, dove le forme si aggrovigliano e mostrano la liberazione di un neurotrasmettitore, il quale determina la risposta elettrica nell’elemento post-sinaptico. E’ una metafora della reazione umana allo svuotamento delle emozioni e all’alterazione dello stato psichico.

A chiudere il percorso espositivo, sono i due diorami, Coral Mushroom Head e Moss Man with Mushrooms, dell’artista Patrick Jacobs (1971), laureato in Belle Arti con specializzazione in scultura alla School of the Art Institute of Chicago.

Le due installazioni sono delle aperture verso un microcosmo cristallizzato dove contenuto e contenitore restituiscono un mondo utopico, caratterizzato da una bellezza estetica e da un accentuato cromatismo che ricorda il Giardino delle Delizie di Hieronymus Bosch (1453-1516).

E’ una composizione pura, non contaminata, che proietta il visitatore in una dimensione altra, in opposizione al pianeta Terra. L’osservazione frontale dei due diorami rievocano le antiche immagini stereoscopiche, la tecnica di realizzazione e visione di immagini, disegni, fotografie e filmati, atta a trasmettere una illusione di tridimensionalità.

Nella visione dell’uomo, la manipolazione della Terra, la volontà di prevaricazione nei confronti del suo stesso genere, verso gli animali e l’ambiente, comporta una involuzione che porterà inevitabilmente all’autodistruzione. E’ un processo inarrestabile che ci proietterà sempre di più verso una società no humans.

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Luca Del Core, vive e lavora a Napoli. E' laureato in "Cultura e Amministrazione dei Beni Culturali" presso l'Università degli Studi "Federico II" di Napoli. Giornalista freelance, ha scritto per alcune riviste di settore, per alcune delle quali è ancora redattore, e attualmente collabora con art a part of cult(ure). La predisposizione ai viaggi, lo porta alla ricerca e alla esplorazione delle più importanti istituzioni culturali nazionali ed internazionali, pubbliche e private.

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