A Catania le ‘Ntuppatedde portano il femminile nella festa agatina tutta al maschile

immagine per ntuppatedde

Appaiono come un’esplosione improvvisa per le strade della pescheria prima e nel cortile dell’Università poi. Bianco e rosso, luce e femminilità. Danzano al ritmo della musica delle bande delle candelore, vestite di bianco, agitando un garofano rosso. Il volto velato, ‘ntuppato. Anche questo 3 febbraio le ‘ntuppatedde sono tornate per le strade di Catania il primo giorno della festa di Sant’Agata.

«Non siamo la riproposizione di una tradizione scomparsa, ma un rito che si ripete ogni anno ispirandosi ad una tradizione perduta. Nel 2013 siamo state una sorpresa, adesso siamo un’attesa», precisa Elena Rosa, l’artista e performer artefice del ritorno delle ‘ntuppatedde per le vie di Catania tra le candelore, i devoti, i ceri e gli arrusti e mangia.

Una figura legata a doppio filo con il culto della Santuzza che ogni anno, dal 3 al 5 febbraio, torna a riempire la vita e le strade dei cittadini del capoluogo etneo in un mescolarsi di fede e folklore, di sacro e profano che coinvolge totalmente l’intera città in quella che si configura come la terza festa religiosa più importante del mondo per il numero di persone coinvolte (preceduta solo dalla festa del Corpus Domini di Cuzco in Perù e dalla Settimana Santa di Siviglia).

Una festa che si innesta sul precedente culto pagano di Iside di cui riprende anche alcuni aspetti della simbologia, tra cui il velo.

Quel velo che un tempo era nero: non velava, ma nascondeva e rendeva irriconoscibili le donne di ogni età, stato civile e classe sociale, che, indossato il loro abito migliore, scendevano in strada a volto coperto esercitando quello che nella novella La coda del diavolo, inclusa nella raccolta Primavera e altri racconti  del 1877, Giovanni Verga chiama «diritto di ‘ntuppatedda», il diritto cioè di «mascherarsi, sotto il pretesto d’intrigare amici e conoscenti, e d’andar attorno, dove vogliono, come vogliono, con chi vogliono, senza che il marito abbia il diritto di metterci la punta del naso» e «dalle quattro alle otto o alle nove di sera» diventare «padrone di sé (cosa che da noi ha un certo valore), delle strade, dei ritrovi, di voi, se avete la fortuna di esser conosciuto da lei, della vostra borsa e della vostra testa, se ne avete».

La velatura, un elemento che torna, oggi come allora, anche se con intenti completamente diversi: se il velo agatino rappresentava la consacrazione a Dio e la preservazione della verginità, quello delle ‘ntuppatedde era in nome dell’emancipazione e dell’affermazione dell’autonomia e dell’autodeterminazione.

«Per noi, a differenza del passato, non è un velo per nasconderci da qualcosa. Ma – continua Elena Rosa – è un po’ come il mascherarsi in teatro, mascherarsi per svelarsi.  Il velarsi delle donne è un elemento che torna spesso nelle varie culture. Dall’Islam alla Madonna velata, c’è una sorta di  sacralità nel nascondimento e nel non mostrarsi».

La nuova presenza di questa figura – che dopo il 1870 fu vietata e dimenticata in nome della moralità, che la vedeva troppo simile all’iconografia delle streghe, e della sicurezza che spinse sempre più al divieto del mascheramento – rappresenta la manifestazione di un bisogno ancestrale, quello del femminile che si libera in una festa che, pur essendo dedicata ad una donna, è gestita tutta al maschile e in cui alla musica non si accompagna il ballo.

«Stimoliamo le donne di ogni età ad esprimersi anche danzando e muovendosi in libertà. Cerchiamo di coinvolgere a danzare con noi o a sorridere», racconta la performer.

Se il primo anno ha vinto lo stupore della prima apparizione, il ritorno annuale tra i portatori delle candelore è diventato, però, in taluni casi anche manifestazione di fastidio e disagio.

Tra i fedeli, invece, persiste la curiosità: e se alcune donne si lasciano travolgere festose dal ballo, c’è chi invece azzarda le identità più disparate sulle giovani vestite di bianco: dalle vergini alle sposine di Agata, dalle sostenitrici dell’amore poligono alle donne abbandonate all’altare.

«Il primo anno – conclude Elena Rosa – eravamo 8, quest’anno siamo 22. Ci vediamo qualche giorno prima per conoscerci e perché la nostra non è solo la partecipazione ad una festa ma performing art.

Ci prepariamo con esercizi mirati a far uscire fuori delle cose che nella vita quotidiana abbiamo perso. Per esempio l’ascolto dell’altro o l’abitare lo spazio in maniera diversa dal consueto del quotidiano».

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Classe 1987. Romana di nascita, siciliana d’origine e napoletana d’adozione. Giornalista professionista, comunicatrice e redattrice freelance. Da sempre appassionata di (inter)culture, musica, web, lingue, linguaggi e parole. Dopo gli studi classici si laurea in Lingue e comunicazione internazionale e in seguito, presso l’università “La Sapienza” di Roma, si specializza in giornalismo laureandosi con una tesi d’inchiesta sul giornalismo in terra di camorra. Ha poi conseguito un master in Giornalismo (biennio 2017 – 2019) presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Giornalista per caso e per passione, ufficio stampa e social media manager per festival, eventi ed associazioni in particolare in ambito culturale e teatrale oltre che per Europride 2011, Trame – Festival dei libri sulle mafie e per Save the Children Italia (2022). Collabora con diverse testate occupandosi in particolare di tematiche sociali, culturali e politiche (dalle tematiche di genere all’antimafia sociale passando per l’immigrazione, il mondo Lgbtqia+ e quello dei diritti civili). Vincitrice della borsa di studio del premio “Giancarlo Siani” per l’anno 2019.
Fotografa, spesso e (molto) volentieri.

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