Eumenidi. Liberare il respiro, farsi comunità. Dalla Sicilia un progetto per parlare della violenza sulle donne

Un coro di donne, un coro di voci che si alza “alla maniera delle donne e ciascuna secondo il proprio sentire” per raccontarsi e per raccontare la violenza. Da questa idea parte il progetto Eumenidi per il 2018 della casa editrice Kromato edizioni in collaborazione con Banca Agricola Popolare di Ragusa, Libreria Mondadori Modica, Ristorante La Moresca, Dearl’s Xerox Sicilia. Un calendario, un documentario e una mostra fotografica per raccontare e dare voce a un gruppo di artiste – siciliane, per nascita o per adozione – nelle vesti di coreute di un’ideale tragedia: Ilde Barone, Mavie Cartia, Khadra Yusuf, Miriam Pace, Alessia Scarso, Manuela Vargetto e Luciana Perego.

Un lavoro di ricerca e di elaborazione, portato avanti dalla casa editrice con sede a Ispica, in provincia di Ragusa, che ogni anno approfondisce un tema diverso declinato attraverso vari linguaggi (foto, testo, video, etc) nelle sue varie sfaccettature di senso. Quest’anno è la volta della violenza di genere e del femminicidio, emergenza sociale e culturale oltre che – purtroppo – parola dell’anno. Un viaggio, con un profondo legame col territorio, che dura un anno in cui ci guidano le Eumenidi, le benevole della tragedia di Eschilo.

Sul vostro sito si legge “Noi pubblichiamo libri”. C’è ancora posto per il mestiere di fare libri e di fare cultura, anche declinata nei vari linguaggi dell’arte, nel nostro paese?

Nella nostra esperienza abbiamo incontrato una produzione culturale che si dirama sempre più dal basso, come se la crisi economica e la labilità dei contratti lavorativi avessero offerto l’occasione per reinventarsi secondo le proprie passioni. Paradossalmente si assiste ad una produzione diffusa e interessante, ma certo frammentata, data da realtà piccole ed autogestite che dovrebbero trovare il modo di fare rete. Non ci sono grandi riscontri economici e ciò costringe a sperimentarsi in più ambiti contemporaneamente, ma la sensazione è di una grande vivacità culturale che fa ben sperare.

Ogni anno dedicate il vostro calendario a un tema diverso che nasce da un grande lavoro di ricerca. Come avviene la scelta?

Il calendario è un vero e proprio progetto: oltre il lavoro di ricerca dei documenti e a quella fotografica, si organizza da alcuni anni un convegno sul tema scelto. Per i primi numeri era più semplice trovare dei nuclei tematici, che riguardassero la storia o le tradizioni, da sviluppare. Dopo 18 anni l’individuazione della tematica è meno immediata. Per un paio di mesi passiamo a rassegna tutti gli argomenti che possono avere per noi un qualche interesse, alla fine la scelta ricade su quello che meglio ci convince per possibilità di sviluppo e di coinvolgimento di altre figure, esterne al nostro lavoro ma competenti sull’argomento scelto. Ci interessa fare un lavoro corale, che possa avere una diramazione in più direzioni. Ci regaliamo la possibilità di portare fuori le nostre competenze e metterle in dialogo con altre, con il territorio e con un pubblico interessato.

Al calendario si affianca, negli ultimi anni, la produzione di un documentario e di una mostra fotografica. Più linguaggi che si intracciano…: che riscontri avete avuto da parte del pubblico?

Questa scelta è nata in modo consequenziale per la quantità di materiale raccolto, che non poteva entrare a far parte del calendario. Ci è sembrato opportuno condividere i risultati dei lavori di ricerca: documenti, fotografie, interviste. Alla fine il calendario diveniva sintesi di una produzione e raccolta enorme di dati. Inoltre era giusto dare spazio alle figure che di volta in volta ci supportano nel lavoro di ricerca e documentazione: fotografi, illustratori, cameramen, studiosi, intervistati… La risposta del pubblico è stata più che positiva: la varietà dei linguaggi usati ci ha concesso l’accesso a un pubblico più ampio e variegato, che ha modo di rapportarsi a più livelli con il tema indagato. Il tutto risulta molto stimolante e attiva interesse e sollecitazioni per sviluppi ulteriori.

Veniamo a Eumenidi, le divinità cui nell’antica Grecia era affidata la cura della città e la tutela della giustizia. Come nasce l’idea? E come si è sviluppato il progetto? Che accoglienza c’è stata finora?

Eumenidi è nato da un moto istintivo di rivolta, un bisogno di liberare il respiro dopo l’ennesimo caso di femminicidio. Non è stato semplice, era come afferrare a mani nude un pezzo di ferro rovente, ma sentivamo che andava fatto. Non potevamo farlo da soli, era necessaria una comunità di sostegno: il tema è talmente forte e inaccettabile che non volevamo correre il rischio di cadere nella retorica, anche delle immagini, o nella banalizzazione. E poi c’era il problema del pubblico: il calendario arriva nelle case, c’è un’attesa… La soluzione ideale ci è sembrata quella di diventare comunità attorno a quest’oggetto, portare dentro le case una riflessione che potesse generare aperture. Così è stato. La mostra e il documentario hanno iniziato un tour per le città. Siamo stati invitati a incontrare associazioni, insegnanti, studenti e abbiamo dibattuto su tutto ciò che ruota attorno al femminicidio: la cultura patriarcale, gli stereotipi di genere, l’arte come canale di espressione dell’essenza al di fuori dei generi. Grazie anche alla presenza competente delle operatrici dello sportello antiviolenza “Fuori dall’Ombra” di Modica. Si è creata una narrazione collettiva che è un tornare nell’agorà e sentirsi responsabili della comunità a cui si appartiene. Si è potuta trasmettere la sensazione di una comunità attenta, capace di contenimento e di cura.

La presentazione del calendario ha previsto inoltre l’intervento musicale di Matilde Politi, cantautrice siciliana che fa della canzone dialettale la sua forza. Quanto è importante il legame con la sicilia e con le radici e le tradizioni per voi?

Abbiamo scoperto che la canzone dialettale ha oggi più interpreti femminili che maschili. Cosa un po’ paradossale se si considera che in origine molti canti avevano autori e interpreti maschili. Inoltre la musica dialettale ricorre a una ritmica, che è quella del tamburello, propria delle donne e a certe vocalità che sembrano venire dalla profondità della terra: ci piaceva contattare attraverso la musica la parte più primordiale, più profonda. È un discorso proprio di identità, di radici. In generale c’è bisogno di creare identità forti, senso di appartenenza in questa epoca liquida. Dall’altra c’era la volontà di restituire la voce, anche prestandogliela, alle donne che hanno perso la voce, che hanno perso il senso di se stesse e la capacità di raccontarsi. Questo era un obiettivo che non è mai stato perso di vista. Quindi ogni scelta doveva essere chiara e avere un’identità ben definita.

Sette artiste come coreute, sette donne siciliane – per nascita o per adozione – diverse per esperienza e per linguaggi, interessi, cultura e creatività, tutte spinte ad interrogarsi intorno a un grande tema. Come si intrecciano?

È un coro polifonico. Chi vede il documentario o assiste alla mostra coglie questa polifonia. È l’antitesi del pensiero unico. Un inno alla bellezza delle differenze e delle singole individualità, ma anche espressione della capacità di posizioni e linguaggi differenti di stare insieme e lavorare a uno scopo comune. Lo scopo è essere una comunità in cui le essenze possono liberamente esprimersi e incontrarsi senza urtarsi. Alla fine più che l’essere donne o l’essere siciliane, a legare i lavori delle singole artiste è proprio il discorso sul valore dell’essenza e della libera espressione di ogni essere umano.

 Ci racconta un aspetto del progetto che le sta particolarmente a cuore?

Mi stanno a cuore le persone. Dalla cronaca puoi distogliere lo sguardo, dalle persone no. Sentire donne meravigliose che hanno dovuto ricostruirsi altrove per fuggire alla violenza, altre ormai annientate nella loro percezione di se stesse, giovanissime che portano addosso la fragilità di chi alla violenza ha assistito… Non puoi fartele scivolare di dosso. Non dare rappresentazione alla violenza è stato un gesto di rispetto nei loro confronti. Avere coinvolto soltanto donne è un modo per avvicinarle. Parlarne tutti insieme e un modo per far sentire la presenza di una comunità attenta… Spesso ci chiedono cosa fare per aiutare le donne che vivono queste situazioni e le prime indicazioni sono sulle parole da usare. Mi sta a cuore poter raggiungere queste donne, far sentir loro che hanno attorno una rete a cui aggrapparsi, una comunità sostenente…

Qual è il sentire “femminista” delle partecipanti? Quali aspetti intendono raccontare della donna? Hanno delle istanze politiche o solo artistiche?

Parliamo di individualità e pensieri differenti. Per qualcuna c’è l’affermazione di un sentimento d’indipendenza, che si articola nella libertà di arricchirsi culturalmente e raggiungere i propri obiettivi professionali: delle donne quindi si vuole raccontare il coraggio, seguendo istanze semplicemente artistiche, riconoscendo già l’arte come una forma di espressione attiva di far politica. In qualcun’altra c’è il riconoscimento di attitudini e sensibilità propriamente femminili che implicano una grande responsabilità verso l’altro, c’è la presa di coscienza di “potenzialità di genere”, intuitive, comunicative, mediatrici. Accoglimento e apertura. Cura e capacità di accettare il distacco. Da qui l’impegno per se stesse e per chi si ha la fortuna di incontrare, affinché maturi l’intima, viscerale consapevolezza di tali potenzialità. Ne deriva che più che di istanze politiche si parli di istanze sociali. L’“istanza” è tradotta come: insistere, incalzare, richiesta fatta con insistenza… Se gli argomenti sono differenza di genere, violenza, discriminazione, le opere diventano amplificazione di un dettaglio e la supplica di osservarlo. Per qualcun’altra ancora il sentire femminista è ravvisabile in un senso di gratitudine nei confronti di coloro che nel passato, e nel presente, hanno contribuito affinchè oggi siamo liberi tutti di non ragionare in termini di donna o uomo, quanto piuttosto di persone. In questa libertà l’opera non ha istanze politiche e può concedersi di farsi narrazione. Per il resto l’arte può essere luogo di rappresentazione di ogni cosa. Differenze e affinità. Domande e risposte. Può scuotere, scandalizzare, confortare, denunciare, alleviare, incitare, provocare, consolare. Può alimentare o sedare. Difficilmente lascia indifferenti. Quindi è praticamente indispensabile a tutti, indipendentemente dai generi.

Qual è il collante che permette di fare andare avanti e far sì che il progetto duri nel tempo?

Direi l’attualità, ma soprattutto la pervasività del tema. Lo incontriamo e ci inciampiamo ovunque. Anche quando solo accenniamo al progetto arrivano testimonianze, risonanze e inviti a portare la mostra e attivare una discussione. Ci sono un’attenzione e un interesse che si muovono su più livelli: insegnanti sensibili nell’individuare strategie educative che interrompano il circuito degli stereotipi; donne che conoscono storie di discriminazione o di violenza e ricercano un confronto proficuo; studenti che assistono a tutto ciò in maniera diretta o mediata dall’informazione e vogliono chiarimenti specifici. Importantissima è la presenza delle operatrici dello sportello antiviolenza, per il bisogno di risposte chiare sull’approccio e l’accompagnamento psicologico e legale delle vittime. Soprattutto i giovani pongono domande molto mirate, specifiche. Sforiamo sempre il tempo concesso al dibattito, potrebbe non concludersi mai. Questa urgenza incontrata, riconosciuta, ci sostiene nel portare avanti il progetto.

Come si conciliano la tenda di Carla Accardi e il femminismo di Carla Lonzi?

Nella sua diffidenza verso l’arte e le artiste, Carla Lonzi intendeva sfidare l’asimmetria dei ruoli che trovava evidenza nelle differenti posizioni sociali dell’uomo e della donna e che nell’arte aveva corrispondenza nella gerarchia che poneva l’artista in posizione dominante rispetto allo spettatore. Concordava con Duchamp sul fatto che l’attenzione va posta sull’opera, non sull’artista. D’altro canto, nella sua tensione a una vita fuori dagli schemi costituiti, alla realtà delle relazioni, nella sua difesa dell’autenticità e dell’unicità della persona, Carla Lonzi si avvicina a quello che è l’ideale di vita dell’artista: la vera arte è quella della vita. Su questa traiettoria vediamo come la tenda di Carla Accardi sottrae lo spettatore a una posizione subordinata, rendendolo partecipe dell’opera grazie alla performatività della tenda. L’opera si discosta, così, dall’artista per interagire con lo spettatore. Il fine è provocare una frantumazione degli schemi: dalla percezione individuale a quella relazionale, lo scopo è una consapevolezza più libera e autentica di se stessi e del proprio posto nel mondo. In questa esigenza di libertà e autenticità la tenda di Carla Accardi e il femminismo di Carla Lonzi si incontrano e diventano strumenti comunicativi potenti del mandato della verità di se stessi e delle relazioni con l’altro e con il mondo.

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Classe 1987. Romana di nascita, siciliana d’origine e napoletana d’adozione. Giornalista professionista, comunicatrice e redattrice freelance. Da sempre appassionata di (inter)culture, musica, web, lingue, linguaggi e parole. Dopo gli studi classici si laurea in Lingue e comunicazione internazionale e in seguito, presso l’università “La Sapienza” di Roma, si specializza in giornalismo laureandosi con una tesi d’inchiesta sul giornalismo in terra di camorra. Ha poi conseguito un master in Giornalismo (biennio 2017 – 2019) presso l’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli. Giornalista per caso e per passione, ufficio stampa e social media manager per festival, eventi ed associazioni in particolare in ambito culturale e teatrale oltre che per Europride 2011, Trame – Festival dei libri sulle mafie e per Save the Children Italia (2022). Collabora con diverse testate occupandosi in particolare di tematiche sociali, culturali e politiche (dalle tematiche di genere all’antimafia sociale passando per l’immigrazione, il mondo Lgbtqia+ e quello dei diritti civili). Vincitrice della borsa di studio del premio “Giancarlo Siani” per l’anno 2019.
Fotografa, spesso e (molto) volentieri.

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