(Il cosiddetto) Codice Italia. Venezia, Biennale, Padiglione Italia

Samorìq

A seguito della presentazione stampa del Padiglione Italia (il 26 marzo), ci eravamo lasciati con la solita mesta affermazione: “staremo a vedere.” Come consuetudine, il ritorno dalla maratona veneziana è il momento della riorganizzazione delle innumerevoli immagini e degli incalcolabili stimoli, cui la tre giorni di preview della 56Biennale sottopone chiunque affronti il mostro apertosi il 9 maggio 2015. Quindi, ora che abbiamo visto, è impossibile astenersi da considerazioni sul triste Padiglione Italia che, già alla conferenza, si presentava trito e ritrito, con il suo altrettanto triste Codice Italia, curato “dal simpatico” (come Francesco Bonami non perde mai occasione di precisare nei suoi articoli) Vincenzo Trione. Un Padiglione che oggi fa dire, con un certo piglio di soddisfazione per l’intuizione andata a segno: “l’avevo detto”.

In molti hanno già scritto lo sbigottimento provato di fronte a un padiglione in cui non solo tutto è cupo e triste quanto un sarcofago, anzi quanto un colombario, ma dove artisti bravi e stimati sono riusciti a realizzare lavori afoni, senza poesia, algidi. Un Codice Italia presentato da chi? Da un grande artista italiano? Da un grande regista italiano? Da un grande scrittore italiano? Insomma, da un grande intellettuale italiano? Macché. Nientepopodimeno che il grande regista visionario Peter Greenway. Con un video degno del migliore ENIT anni ’80, il Nostro Peter dovrebbe esaltare le bellezze del Nostro Bel Paese, sempre con quell’intento di evidenziare quel famoso DNA italiano/italico che ci dovrebbe contraddistinguere dal resto del mondo. Invece, oltre a suscitare commiserazione per il Nostro Peter, lascia interdetti per la sterilità e l’incongruità della presentazione. Centinaia di immagini dei capolavori del Patrimonio Italiano si susseguono, sparate sulle quattro pareti dell’ambiente centrale posto immediatamente di fronte all’ingresso, cui mancava solo la scritta: “Baci dall’Italia”. Molto simile a una gabbia cui si accede da tagli verticali l’ambiente è fortemente illuminato con una luce quasi solare e abbacinante (quella del Nostro Caldo Paese?). Un Padiglione che sin dall’esterno fa correre un certo brivido di sgomento lungo la schiena per la “geniale” collocazione di una sorta di abside bidimensionale che segna, appunto, l’ingresso a questa somma cattedrale della creatività (?), alla sacralità del genio italiano (?), alla religiosità dell’arte italiana (?).

I quindici artisti, di cui, nota bene, ben nove fanno parte del pacchetto Post Classici (Roma, 2013; Trione si è fermato al Palatino?), chiamati a lavorare su concetti fumosi e, per alcuni, distanti dalla personale ricerca (vedi tema dell’archivio), si sono così ritrovati a una forzata convivenza, senza che nulla (se non forse un’amicizia nella vita quotidiana) di artistico li tenesse uniti o, comunque, li avvicinasse l’uno all’altra. Simile a una sommessa e solenne benedizione su tutto, ecco il monologo di Umberto Eco che esalta la memoria, per rinnovare l’originale concetto: senza memoria non ci può essere futuro e tanto meno un presente. Il Nostro Umberto dovrebbe trasmettere autorevolezza a quanto esposto? Se tutto ciò non bastasse, ci ha messo dentro anche l’italianissimo William Kentridge che, oltre alla riproposizione del noto corteo di Triumphs and Laments, guarda caso ha realizzato un lavoro indovinate un po’ su chi? Ma su PPP! Il Nostro caro Pier Paolo Pasolini, unico nume tutelare dell’arte degli ultimi anni (l’arte si è fermata a P³?). Un Antonio Biasucci, solitamente attento ai dettagli, caratterizzato da uno spinto B&N, ridotto a una parete cielo/terra, nel quale ha fittamente accostato le sue fotografie; delle quali, così poste, a fatica si riescono a mettere a fuoco i caratteristici particolari. Un Giuseppe Caccavale (che fa da contraltare a Janis Kounellis!) che sembra aver allestito le pareti di un set televisivo per la lettura del meteo del fine settimana. Un Nicola Samorì che sembra portarti dentro un laboratorio di patologia clinica. E il tanto atteso Aldo Tambellini, l’outsider che non ha mai esposto in Italia, per il quale era finalmente giunto il momento del doveroso riscatto e riconoscimento, è ridotto a piccole immagini paratattiche con un video dentro un pilastro centrale che rende tutta la “cella” di non facile e gradevole fruizione e lettura. Non è tanto la distanza siderale che sussiste tra il Nostro Padiglione e quelli stranieri, che si prendono la responsabilità di effettuare una vera scelta, puntando su progetti specifici e su un artista unico. Ciò che urta, è la considerazione che molti pronunciano: “il Padiglione è lo specchio del Paese”. Certo che è lo specchio del Paese, ma di quello in cui i partiti politici vogliono controllare tutto e consegnano incarichi a chi non ha quei titoli che dovrebbero distinguerli da meri esecutori. Non è lo specchio di quelle professionalità costruite sul campo e nel tempo. Chi quotidianamente svolge il suo lavoro sulle tanto ignorate buone pratiche, non si rispecchia in questo (cosiddetto) Codice Italia.

 

+ ARTICOLI

Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.