Silvia Camporesi – Forzare il paesaggio. z2o Sara Zanin Galleria

Tre storie o, per meglio dire, tre utopie, raccontate da Silvia Camporesi. Ognuna riunita nei tre ambienti della Galleria z2o Sara Zanin, raccolte sotto il pregnante titolo Forzare il paesaggio.

Quei paesaggi, rappresentati, ritratti, finanche ricostruiti nei lavori, prevalentemente fotografici, sono (purtroppo e, raramente, per fortuna) il definitivo risultato di un deciso intervento (dal più incisivo al meno conturbante, troppo spesso ignavo, altre incosciente) compiuto dalla mano dell’uomo.

Tuttavia, per quanto Silvia Camporesi nei suoi lavori abbia gradualmente trascurato, fino ad eliminarla del tutto, la presenza umana, per concentrarsi esclusivamente sul paesaggio, tale presenza, in realtà, permane sottintesa attraverso le tracce che lascia nell’ambiente in cui vive e attraversa.

Nata a Forlì (1973), solamente dopo gli studi di filosofia, l’approccio di Silvia Camporesi alla fotografia diventa sempre più sistematico e approfondito, fino a diventare il proprio linguaggio espressivo, lo strumento attraverso il quale raccontare, appunto, delle storie o, come detto, delle utopie destinate a concretizzarsi o a naufragare miseramente.

Dunque, Forzare il paesaggio, nell’attuale fase antropocenica, è anche la schietta narrazione di come delle utopie possano, seppur supportate dai più elevati intenti, stravolgere completamente, a volte anche irrimediabilmente, l’assetto e il delicato equilibrio naturale dell’ambiente, creandone, spesso, uno totalmente nuovo e diverso.

Così i lavori di Silvia Camporesi sineddoticamente rappresentano uno stato di manomissione ambientale generale e generalizzato. Allo stesso tempo, però, Silvia Camporesi attua una forzatura anche allo strumento stesso che utilizza.

Poiché “per sapere occorre immaginare” (Georges Didi-Huberman), perché l’immaginazione permette di vedere oltre alla percezione molto di ciò che sta al di là (William Morris) e, per attivare questa immaginazione, Silvia Camporesi ha forzato la fotografia, creando un corto circuito al suo interno.

Per antonomasia, la fotografia corrisponde a documentazione ma, in queste tre narrazioni, essa documenta qualcosa che non esiste, se non nell’immaginazione: attraverso l’immaginazione, Silvia Camporesi ricostruisce qualcosa che si può solo immaginare.

Come una fotografica “guida romantica a posti perduti”, ha infatti descritto tre luoghi del tutto unici nella loro rarità, talmente straordinari da sembrare inventati. A partire proprio dal primo, il più utopistico dei tre, che per un brevissimo periodo, ha dato l’illusione che potesse mantenere la sua concreta attuazione.

La storia, nonché il titolo stesso dei due lavori esposti, è quella de L’Isola delle Rose (recentemente tornata alla ribalta dal più che romanzato film L’incredibile storia dell’Isola delle Rose interpretato da Elio Germano e diretto da Sydney Sibilia).

L’ingegnere Giorgio Rosa, inseguendo ideali di totale libertà, si costruisce un proprio stato appena fuori le acque territoriali italiane, di fronte alla riviera di Rimini.

Una piattaforma con una propria lingua (l’Esperanto), con una propria moneta, dei propri francobolli e un proprio governo. Uno Stato che, inaugurato nella simbolica data del 1° maggio del 1968, durò solamente fino al febbraio del 1969 allorquando lo Stato Italiano (che non l’aveva mai riconosciuto), dopo un’occupazione militare, la fa saltare in aria.

Quindi, tutto questo non esiste più. Ma, nelle foto di Silvia Camporesi, invece, tutto questo c’è, esiste e si può vedere. Perché nell’intenso blu del mare, spicca la nera sagoma della piattaforma.

Attraverso i documenti dell’epoca, l’artista ha ricostruito il tutto e, attraverso l’artificio fotografico, una sapiente prospettiva e una perfetta inquadratura, et voilà che davanti ai nostri occhi, fissata sulla carta fotografica, ci appare L’Isola delle Rose, in tutta la sua possenza, altresì vigorosa utopia.

Simile ambiguità, che rende difficile il discernimento tra vero, verosimile e finzione, reale e inesistente è la serie de Il Paese sommerso raccontato mediante un video, delle fotografie sia di grande, che di medio e piccolo formato.

Come un sub che si addentra tra i fasci di luce che attraversano finestre e porte ormai vuote, Silvia Camporesi descrive il sommerso paese di Fabbriche di Careggine.

Un paese fantasma, di origine medievale, che la costruzione della diga (1947) ha completamente inondato e coperto dalle acque del lago artificiale di Vagli.

Quindi, come una perla racchiusa nell’acqua, l’immaginario collettivo sa che il paese è lì, in fondo al lago, e qualcuno addirittura è riuscito anche a vederlo, come una visione allorquando nel 1994 il lago fu svuotato per lavori di manutenzione (come nelle volte precedenti, 1958, 1974 e 1983), con l’impegno che l’operazione si dovesse ripetere ogni dieci anni e per questo, dal lontano 2004 sembra che ogni anno sia quello giusto, ma ad oggi ancora non è stato attuato.

E così, Silvia Camporesi, riporta alla luce quel paese, con la sua chiesa e la sua manciata di case, nuovamente un modellino in scala, costruito mattoncino su mattoncino (ricordando la finzione di Thomas Demand, ma ovviamente con un intento e una denuncia totalmente differenti).

Quello che ulteriormente si pone dietro a questi lavori è un’appropriazione. Un’appropriazione del tempo, dell’afflato vitale di quei luoghi, di un viaggio a ritroso, nell’immaginazione, per rivitalizzare un ricordo, una memoria e renderli indelebili.

Solo la terza storia, pur nella forzatura del paesaggio, è quella che, tutto sommato, non ha deviato di molto il regolare corso della natura, se non cambiando quello della vita dei duecentosette abitanti del piccolo paesino di Viganella (anche questo ricordato nel film C’è tempo di Walter Veltroni, dove addirittura viene auspicata la nascita di un nuovo lavoro: lucidatore di specchi).

Il piccolo paesino (dal 2016 col vicino Seppiana, ha formato il nuovo comune di Borgomezzavalle) che da novembre a febbraio viene illuminato con i raggi riflessi dal grande specchio installato nel 2006 per spezzare il buio di quei mesi e che Silvia Camporesi l’avverte “come un’opera d’arte a tutti gli effetti […] ho fotografato la luce riflessa, il modo in cui illumina il piccolo paese”.

Tre luoghi, tre eterotopie, raccontati con fotografie che “nascondono quanto rivelano […] possono essere piegate a infiniti voleri” (David Campany) e che sono sì un mezzo di indagine della realtà attraverso la raffigurazione della menzogna, rappresentando una finzione attraverso il mezzo più realistico in assoluto.

Perché come ama spesso citare la stessa Silvia Camporesi “la fotografia non sa mentire, ma i bugiardi sanno fotografare” (Lewis Hine, 1909).

 

Silvia Camporesi Forzare il paesaggio

  • z2o Sara Zanin Galleria – Via della Vetrina 21 – 00186 Roma RM
  • fino a 29 gennaio 2021
  • info: www.z2ogalleria.it – t. 06 70452261
  • per le attuali disposizioni anticovid è opportuno verificare gli orari
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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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