Jonny Briggs. Comfortable in my skin. Rielaborando il passato

Holding 2011 106 x 123 cm Photography; C-type Lambda print, framed in brown Courtesy Galleria Marie-Laure Fleisch and the artist

Piuttosto che uccidere il padre e sposare la madre, Jonny Briggs (Londra, 1985) rielabora il suo passato. Perché, se è vero che ogni famiglia ha i propri segreti e bugie, è altrettanto vero che è inutile correre con le forbici in mano. È molto più vantaggioso, e sicuramente più salutare, guardare attraverso l’obiettivo di un apparecchio fotografico, per anteporre quella giusta distanza fra l’io e quello che è intorno. Così, attraverso la cattura delle immagini, si frappone quel tempo necessario per osservare, riflettere, analizzare, elaborare, metabolizzare, superare, affrancarsi e progredire; solo così ogni cosa è illuminata. E si conquista la propria identità. Un’identità che, però, non può rinnegare le relative radici. Solo riannodandole e, quindi, ricongiungendosi con la propria storia e il proprio passato, tutto potrebbe trovare un senso.

Un significato che Jonny Briggs tenta di rintracciare attraverso l’esplorazione dei propri ricordi, delle proprie emozioni, perché “le emozioni sono tutto quello che abbiamo”. A partire da quelli dell’infanzia. Perché se “il bambino è il padre dell’uomo” (William Wordsworth, L’arcobaleno), è necessario rintracciare quel bambino, per comprendere e delineare l’uomo di oggi, per stare finalmente Comfortable in my skin, come il titolo della mostra stessa indica, nonché della foto in cui Jonny Briggs sembra generarsi (o rientrare) dalla pancia del padre. In questa sorta di recherche – à rebours della propria identità, Jonny Briggs ritorna sul luogo del delitto, ritorna cioè nella casa, quella dei suoi genitori tra i boschi del Berkshire, che è stata motivo di sofferenza, di soffocamento, di alienazione, di desiderio di liberazione e riscatto; nonché simbolo dei rapporti familiari. Ed individua nella fotografia lo strumento idoneo per le sue osservazioni. Perché, se ci pensiamo, nonostante l’illusione di fedeltà alla realtà, quanto è, invece, falsa la fotografia, soprattutto quella collezionata negli album familiari? Ci si mette in posa, si sceglie il momento più consono, si omettono dettagli, si tacciono situazioni, si eradono conflitti e difficoltà, e si sorride.

Per questo la fotografia permette a Jonny Briggs di indagare l’inganno, la realtà costruita, della (sua) famiglia, per mettere in discussione le relazioni, i confini tra adulto e bambino, tra vero e falso, in quell’ambiente asfittico, che è sì della middle class britannica, però universale. Con una selezione di lavori realizzati tra il 2010 e il 2014 (in parte già esposti al FaMa di Verona, 2012; e alla Fondazione Fotografia Modena, 2015), nella Galleria Marie-Laure Fleish, si entra nella quotidianità di Jonny Briggs, del suo mondo, del suo vissuto, delle sue emozioni, della sua identità, trasposti in impeccabili tableaux vivants, dove la perfezione formale, costruita con un’attenta simmetria e colori saturi e pregni, è la “trappola estetica” per catturare il visitatore e tirarlo dentro a questo mondo, realisticamente falso e per questo fortemente vero. Perché Jonny Briggs, per mezzo della scultura e di una sapiente costruzione scenografica, realizza delle raffinate fotografie, i cui soggetti, oltre ad essere proprio quella casa che nel passato può aver creato certi mostri (che il bellissimo scatto di grande formato Monstrare, abilmente sintetizza: un ciuffo di capelli che sbuca dall’elaborata e caratteristica carta da parati), oggi combattuti (e forsanche uccisi?), sono gli stessi genitori che, sorprendentemente, si prestano negli scatti.

Attraverso l’utilizzo dell’arte come strumento di psicoanalisi e, perché no?, anche catartico, Jonny Briggs ci racconta e ci fa entrare nel suo universo, nella sua The Home (una foto di grande formato, di forte impatto, che inquadra il calco color carne della cucina), una casa che, alla fine, è una seconda pelle, ma anche una pelle che, dopo la muta, si abbandona. Una casa dove tutto è cristallizzato, reso grigio dal tempo, ma forse ugualmente rassicurante, perché tutto immobile e immutato, registrato in Trompe l’Oeil (un reale angolo della casa ricoperto di vernice color magnolia).

Un inganno ancor più evidente nei lavori Heirloom e, ancor più in Belt. Il primo l’accostamento all’originale di una fedele riproduzione in gommapiuma del martello che il nonno regalò al padre, in quel passaggio rituale di testimone di mascolinità, affidato agli oggetti; il secondo una cintura da uomo con una doppia fibbia, perciò inutilizzabile ma simbolo di una specifica funzione. Quell’accettazione del passato per l’affermazione della propria identità è metaforicamente tradotta nella serie Schisms (foto di famiglia nelle quali Jonny Briggs interviene con un taglio trasversale dell’immagine facendo slittare poi le due parti, affinché il volto di uno dei suoi familiari, scivolando, diventi la testa del suo corpo). Ma soprattutto in Smiling Inside (una foto nella quale Jonny Briggs indossa una gigantesca maschera del volto del padre tramite la quale, dalla fessura che verticalmente l’attraversa, si scorge il vivo sorridente dello stesso artista) ancor di più Jonny Briggs attua quel transfer necessario per il proprio affrancamento in quel processo di affermazione e riconoscimento.

 

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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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