Tensioni strutturali #3 analizza il rapporto tra uomo spazio e contesto. Da Eduardo Secci Contemporary a Firenze

Andrea Nacciarriti, Crystalize-#002. Courtesy Eduardo Secci contemporary

Il progetto Tensioni strutturali, ideato e curato da Angel Garcia Moya, è giunto alla sua fase conclusiva. Pensato sin dall’inizio come un unicum organico, il suo frazionamento in tre momenti, distinti ma connessi, ha consentito una visione completa e dettagliata dell’intera impalcatura espositiva, curatoriale e artistica.

In tal modo, nell’arco di oltre un anno, lavori espressamente ideati per la trilogia, si sono alternati negli spazi della Galleria Eduardo Secci Contemporary (Firenze).

Giacché il legame con lo spazio è l’elemento fondante e costituente delle opere dei tredici artisti coinvolti i quali, attraverso le rispettive installazioni, realizzate con media decisamente diversi tra di loro, hanno riorganizzato, ridefinito e rimodellato gli ambienti.

L’intento e l’intenzione dell’intero progetto, erano, infatti, quelli di analizzare il rapporto uomo/spazio e le eventuali e reciproche influenze, interazioni, limiti, interpretazioni, travalicamenti, restringimenti.

Lo spazio come contenitore e come contenuto; accogliente, protettivo, isolante e estraniante, in una fluida e costante co-presenza del connaturato valore positivo/negativo del diuturno dualismo dell’uomo. L’uomo come suo fruitore, manipolatore, costruttore, demolitore, che lo può esperire sempre con esiti e intenzioni mai eguali.

Di volta in volta, ciascun intervento ha stravolto e ricomposto l’ambiente espositivo interessato. In ogni circostanza si è potuto, così, esaminare come il singolo artista si sia rapportato con l’intera superficie e abbia risolto le relative e eventuali problematiche correlate. Al visitatore è stata, pertanto, prospettata l’occasione di intraprendere un breve viaggio attraverso le varie stanze; un viaggio capace di sollecitare sensi diversi e favorire differenti riflessioni.

Tensioni strutturali #1 (febbraio 2016) era contraddistinto dalla centralità dello spettatore, vero e concreto attivatore dei significati.

La sua presenza azionava connessioni, contenuti, tematiche, conoscenze. Il suo esperire il singolo lavoro, attraversandolo fisicamente, con i personali pensieri, esperienze, conoscenze.

Per farsi trasportare dalle diverse emozioni e impressioni, lasciarsi andare alle dissimili sensazioni e suggestioni, perdendo qualsiasi coordinata fisica e spaziale, immergendosi in una dimensione nuova, estraniante e inedita.

Sono state le Aritmetiche architetture sonore di Roberto Pugliese (1982) a destrutturare il perimetro della sala d’ingresso: le misure tradotte in suono attraverso un algoritmo. Un’essenziale rete di fili di acciaio su cui si posano degli speakers con un andamento regolare, concorreva alla ridefinizione spaziale.

Linee, ma di luce generata da fibre ottiche, sono quelle che annullavano e ricostruivano lo spazio manipolato da Carlo Bernardini (1966), Sul crinale del visibile, nella seconda sala: il buio era attraversato, come da lampi, dai fasci luminosi che indicavano prospettive e coordinate altre rispetto a quelle originarie.

Mentre uno spazio posto in tensione, che sembrava passare da uno stato liquido a uno solido, da una dimensione eterea a una frammentaria ma consolidata, era Raumzeichnung di Monika Grzymala (1970).

Pareti che apparivano andare in frantumi, il soffitto e il pavimento che si ridefinivano e scomponevano di continuo, con un moto proprio e autonomo, era quanto Esther Stocker (1974) ha realizzato con le strisce di nastro isolante nero, costruendo una geografia spaziale completamente unica.

Aeneas Wilder, Davide Dormino, Marzia Corinne Rossi, Diamante Faraldo e Andrea Nacciarriti sono, invece, gli artisti coinvolti in Tensioni strutturali #2 (novembre 2016), al cui centro di analisi è stata posta la materia, con i suoi limiti e possibilità.

Un intreccio di elementi costruiva una sorta di parallelepipedo di notevoli dimensioni che si ergeva al centro della stanza per tutta la sua altezza. Nella prima sala, Aeneas Wilder (1967), con quella pazienza che contraddistingue la cultura orientale, da lui ben assimilata, aveva costruito Untitled #191. Una sorte di torrione, con le varie parti sovrapposte come un enorme kapla, in cui il labile equilibrio era assicurato dal sapiente posizionamento dei singoli pezzi, tenuti tra loro dal nulla, vale a dire dalla misurata disposizione degli elementi; evocava altresì i muretti a secco di recinzione dei diversi appezzamenti di terreno, che si tengono in piedi nonostante l’assenza del legante della malta.

Simile a un nido o a una riparata radura di esili rami, si presentava l’installazione Lontanodentro di Davide Dormino (1973).

Come delle radici che dal pavimento si innalzavano circolarmente verso il soffitto, i fili di ferro formavano una cavità dentro la quale il visitatore poteva scegliere di entrare, e avere così una visione e visuale diversa della sala.

Occupanti due pareti opposte, i lavori di Marzia Corinne Rossi (1984) e Diamante Faraldo (1962) si fronteggiavano. All Is Shining the Same ovvero dei cilindri di carta vetrata dipinti della prima, confondevano e annullavano la percezione reale del muro, mentre il marmo bianco e la gomma delle camere d’aria dei pneumatici costruivano la mappa rovesciata A Nord del Futuro del secondo, che solo una visione attenta e ravvicinata permetteva di cogliere alcuni dettagli della materia.

Un tempo sospeso è quello che proponeva Andrea Nacciarriti (1976). Crystallize #002 [matter] metteva in discussione il “qui e adesso”: un’azione, pressoché violenta, mandava in frantumi un vetro cui si era andata a infrangere una “bomba di vernice”. Un momento e un atto congelati all’infinito che rendevano il visitatore testimone di un evento finito ma perpetuo e lo bloccavano in una dimensione estraniante e dilatata.

Si giunge, così, a Tensioni strutturali #3, la terza e ultima parte del progetto, recentemente inaugurata (23 settembre 2017).

Caratterizzata da imponenti e suggestive installazioni immersive, che traducono il caos e la confusione, la calma e l’ordine, lo scuro e la luce ovvero il giorno e la notte, i principali elementi che abitudinariamente contraddistinguono l’ordinario vivere e l’ambiente quotidiano di ognuno di noi. Situazioni che possono provocare un senso di spaesamento, cui si cerca di far fronte con diverse soluzioni, tra cui l’elaborazione di rigide e non interscambiabili categorie.

Un elementare pannello LED con luce blu cangiante e fluttuante di Basin di Daniel Canogar (1964), crea l’atmosfera di un acquario, in cui il visitatore, lasciandosi trasportare dal movimento ondoso della luce, si sente sommerso e avvolto. Spostandosi nella sala successiva, cambia repentinamente il registro.

La luminosità è rapidamente soppiantata dal buio di The relativity of the matter di Levi Van Veluw (1985): solo se si aspetta con pazienza, gli occhi riescono ad abituarsi alla tenue e fioca luce e vedere, così, gli scomparti perfettamente ordinati di uno studio di un cercatore d’oro (?), di un minatore (?), o di un elfo burlone (?), che, con maniacale precisione, cerca vanamente di sistemare, incasellare, selezionare, le pietre solo apparentemente tutte uguali e regolari, che analizza, alla ricerca di un nucleo prezioso, raro e nascosto.

La luce compie nuovamente un forte guizzo, che si moltiplica all’infinito, nella rifrazione dei vetri frantumati di lunotti di automobili che, con il loro andamento vorticoso, asseconda e accompagna.

Baptiste Debombourg (1978), in (R)EVOLVE, una forza titanica turbinosa, esplode dal pavimento, si espande per la stanza, salendo per le pareti e attraversando il soffitto, conferendo allo spazio un grande senso di precarietà. Sentendo la potenza della Storia e degli eventi che l’hanno caratterizzata, Debombourg ha voluto dare forma all’enorme frattura e insicurezza che la rivoluzione copernicana ha creato nella società dell’epoca, obbligandola a una rilettura delle convinzioni e sicurezze fino ad allora avvertite come monolitiche e inconfutabili.

Squarcio dello spazio che sembra avere anche una traduzione sonora proposta da 375 prepared dc-motors di Zimoun (1977), allestita nell’ultima sala. Le coordinate fisiche, infatti, sono messe in discussione e annientate anche dal disarmonico ritmo dei piccoli dispositivi meccanici i quali, attraverso il loro movimento, fanno roteare delle piccole corde.

Queste si trasformano in una sorta di martelletti che colpiscono le scatole di cartone su cui sono state montate. Una vibrazione acustica, amplificata dai cartoni che acquistano il ruolo di cassa di risonanza.

Un tremolio che pervade tutta la sala, ipnotizzando lo spettatore col relativo movimento regolare e che, solo sof-fermandosi, percepisce l’andamento asincronico dei diversi meccanismi, le differenti lunghezze delle cordicelle, la disomogenea collocazione delle componenti meccaniche: tutto ciò origina un “concerto” caotico, che diventa ritmo qualora si isoli ogni singolo elemento.

Il rinnovato tentativo di fondere l’ordine e il disordine della vita.

Info mostra

  • Tensioni strutturali #3
  • fino al 22 dicembre 2017
  • Eduardo Secci Contemporary, Piazza Goldoni 2 – Firenze
  • a cura di Angel Moya Garcia
  • ingresso libero
  • orari di apertura: lunedì – sabato 10:00 – 13:30/14:30 – 19:00
  • info: (+39) 055 661356 – gallery@eduardosecci.comwww.eduardosecci.com

 

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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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