Eugenio Tibaldi – Giuseppe Ripa. La banalità del quotidiano. Interviste inedite agli artisti

immagine Giuseppe Ripa

Una volta, un fotografo, di fronte ad alcune immagini di strade, marciapiedi, stanze vuote, oggetti quotidiani ripresi tal quali, storse il naso. Indagando sulla sua reazione, rispose che erano foto che lui trovava prive di contenuto, finanche insignificanti, ovvero “immagini del banale”. Questa interpretazione rimase a lungo nella mia mente, poiché non riuscivo a sentire mio quell’enunciato a cui lui, invece, aveva assegnato un accento negativo, probabilmente perché, per tale fotografo, l’immagine di “denuncia” è l’unica in grado di veicolare un certo tipo di messaggio.

Eppure, una lunga tradizione fotografica, da André Kertész (Budapest 1894-New York 1985), che amava confondersi tra la gente comune, registrando il banale e il quotidiano, nelle sue foto molto semplici, a William Eggleston (Memphis, 1939), le cui foto agli inizi raccolsero le aspre critiche del sommo Henri Cartier-Bresson, a Martin Parr (Epsom, Inghilterra, 1952), tanto per citare alcuni nomi, nonché l’invenzione dell’istantanea, che ha dato una notevole accelerazione a questo genere di immagini, hanno completamente sdoganata tale prassi artistica.

Si è così individuata ne “la banalità del quotidiano” una notevole portata emotiva, simbolica, evocativa, documentaristica, immaginifica, di forte sperimentazione, perché libera dai condizionamenti delle regole della fotografia, accompagnata dalla profonda soggettività con cui l’artista si mostra allo spettatore senza veli.

Sì, certo, ogni artista attraverso la sua opera, mostra il lato intimo del suo pensiero, del suo animo, ma attraverso la fotografia, e s’intende qui quella realizzata con presa diretta e senza troppe manipolazioni, è come guardare senza deviazioni attraverso l’occhio dell’artista, vedere col suo sguardo, percepire con la sua retina, mettendo a fuoco quel dettaglio, ritagliandolo da quel contesto, erigendolo a soggetto. Con un atteggiamento diverso dalle altre forme artistiche che richiedono, invece, interpretazione, ritorno, elaborazione, aggiustamenti.

Così, visitando gli stand della 42.ArteFiera (Bologna, 2-5 febbraio 2018), mi sono rimasti impressi due particolari lavori, uno di Eugenio Tibaldi (Alba-CN, 1977), esposto da Umberto Di Marino, l’altro di Giuseppe Ripa (Ragusa, 1962), esposto da Romberg Gallery. Due artisti geograficamente, ma altresì come pratiche artistiche, distanti che, tuttavia, sono vicini in alcuni fondamentali punti della rispettiva ricerca.

Tutte e due lavori fotografici, però: il primo utilizza la fotografia per costruire un discorso e una riflessione ben più ampi, muovendosi sul concetto della linea di confine; il secondo attraverso la fotografia, narra storie molto più estese e articolate, tuttavia anch’egli si muove su quella linea di confine.

Concretamente, entrambi, individuano questa linea di confine nei dettagli del quotidiano, dettagli banali, non significativi, che, però, attraverso il loro sguardo, sono trasformati in altro, si fanno racconto di qualcosa di diverso rispetto al significato apparente. Quell’ovvietà che diviene narrazione, descrizione, storia, invito alla riflessione e che, posta sotto una luce nuova, si fa foriera di dinamiche assolute. Lavori che guadagnano ulteriore valore perché, attraverso elementi chiari, facilmente riconoscibili e immediatamente intelligibili, non respingono.

Al contrario, il visitatore si sente libero di avvicinarsi senza riserve e preconcetti e si ritrova a fare i conti con tutto il carico di contenuti e concetti sottesi a quelle comuni immagini. Le quali, oltre a mostrare elementi altrimenti ignorati, si caricano di simbolici significati, si assumono il compito di attestare delle realtà, constatare dei fatti ineluttabili.
Gli stessi artisti hanno raccontato i loro lavori.

 

EUGENIO TIBALDI

Volevo avere un confronto con te sull’opera vista nello stand di Umberto Di Marino. Durante la visita, ho visto un lavoro fotografico di Giuseppe Ripa nello stand di Romberg con fotografie realizzate sulla spiaggia…

Ricordo benissimo! Perché sono molto vicine a quelle che ho scattato a Licola. Infatti, mi son fermato, e le ho guardate, perché alcuni soggetti li ho percepiti uguali.

Quando ho visto le fotografie di Giuseppe Ripa mi è subito venuto in mente il tuo pop up Seaside, col quale ti sei aggiudicato il Premio Maretti nel 2013…

…ma oltre al pop up, c’è una serie di fotografie, esposta fino al 4 marzo 2018, al MCAD – Museo di Arte Contemporanea e Design di Manila, dal titolo Flatlands, ovvero sessanta immagini di tutti i residui portati sulla spiaggia di Licola, ripresi metro per metro, per tre chilometri.

Volevo parlare con te della vicinanza che ho avvertito tra i due lavori. La serie da Romberg l’hai avvertita come un doppione del tuo lavoro? Oppure è stata per te una constatazione che alcune riflessioni sono condivise e portate avanti anche da altri artisti?

C’è proprio quest’aspetto: penso che l’arte, seppure a geografie diverse, ha una tensione comune. È positivo che ci siano pensieri collettivi. Infatti, nella mostra di Manila, la curatrice ha chiamato quattro artisti provenienti dai diversi angoli del mondo, accumunati da una base quasi scientifica di documentazione che poi ognuno approfondisce per la sua strada.

Ho avvertito una vicinanza dapprima formale e poi concettuale, con istanze, approcci e approdi diversi…

Il mio è un day by day di una situazione estrema in cui mi ero infilato: era un modo di raccontare per immagini la mia quotidianità senza usare le parole. Un diario, compilato giorno per giorno: la mattina, mentre raccoglievo la legna, vedevo case bruciate, macchine rubate e abbandonate, i cavalli della camorra che si allenavano, e fotografavo metro per metro quello che avvistavo. Le opere finali erano piene di freccette con le scritte esplicative. Mentre l’approccio di Giuseppe Ripa, per come l’ho avvertito io, è una registrazione per documentare lo status della costa con un’estetizzazione e un formato che ne determina la sua natura di fotografo. Il modus è lo stesso, però, per quanto mi riguarda: c’è prima una fase di studio, poi un lunghissimo periodo di ricognizione degli elementi, infine la decisione di come raccontare questi elementi. Per esempio per Licola, il vero lavoro è il pop up, anche se alcune foto sono molto belle. Lì ho deciso di raccontare l’esperienza con uno strumento che ha anche del giocoso.

Le fotografie di Licola ugualmente il lavoro esposto da Umberto di Marino hanno molti contatti.

Per Questioni di Appartenenza c’è lo stesso iter. Ho di nuovo cambiato casa, andando a vivere nel cuore dei Quartieri Spagnoli alla fine della mia permanenza a Napoli. È stato un taglio sofferto e quindi ho dovuto immaginarlo già da qualche tempo prima. Precedentemente avevo lavorato solo nell’hinterland. Adesso, invece, mi ero spostato in centro con l’idea di cogliere quelle unicità, quelle sacche di resistenza nel cuore di Napoli, una delle pochissime città in Italia che non si è depurata al suo centro, vendendo ai ricchi e diventando molto più turistico, perché Napoli ha dei quartieri realmente popolari. Perciò è nato Questioni di Appartenenza. Quaranta studenti del terzo e quarto anno del Liceo Vico, suddivisi in gruppi da cinque, inviati nei vicoli, ognuno con un compito preciso. Chi doveva fotografare i camini abusivi delle pizzerie, chi i condizionatori, chi le finestre e le porte abusive dei bassi, chi i paletti per occupare i parcheggi per le macchine sotto casa. Questi gruppi percorrevano i viali, due a destra e due a sinistra e la quinta persona mappava il percorso svolto. Alla fine sono stati esplorati 100km di vicoli napoletani e realizzate 24000 immagini nell’arco di un anno, che hanno dato corpo alle opere. Quella della fiera è quella dedicata all’idea che sulle facciate del sei-sette-ottocento napoletano poco racconterebbero delle persone che ci vivono dentro se fossero rimaste intatte, invece quelle di Napoli raccontano di un brulicare di vita all’interno. “L’informalità” apre un varco rispetto all’abitare interno di questi palazzi e ci documenta anche, a distanza di anni, che le teorie di Benjamin sulla città porosa, come lui ha definito la città, sono ancora valide. E che la capacità di Napoli è quella di sfruttare l’interstizio come nuovo spazio. Da questa base di ricerca, ho deciso di costruire una sorta di filtro, tende con cui riguardare il reale, con l’idea di traforare. Ho affiancato tutte le immagini da cui ho ricavato sette temi mentali, poi ho ritagliato tutto ciò che è legale, lasciando l’illegalità, creando un percorso fatto di connessioni illegali fra elementi diversi, realizzando così sette lavori.

La città solitamente è vista solo sotto questo aspetto, quello illegale, ma da parte tua non c’è giudizio, c’è una ricerca per trovare l’essenza.

Per me il fatto che sia illegale è solo un dato. È proprio una mappatura del vivere, una capacità della vita. È una serie di segni e di simboli che, una volta estraniati dal loro contesto, assumono un valore di fragile eleganza. La fragilità di queste opere fa parte, quindi, della fragilità propria di quel sistema, che si espone completamente al pubblico in tutta quella che erroneamente è chiamata “bruttezza”. Per me, invece, è un’estetica del provvisorio con un grande fascino.

Molto spesso questo tipo di immagini sono definite immagini banali, che riprendono, cioè, la banalità del quotidiano, dove in realtà c’è tutto un sostrato di vita.

Avendo lavorato tanto sul punto di margine, sull’estetica del marginale, sull’architettura del marginale, non esiste una cosa di banale come non esistono i non-luoghi teorizzati da Marc Augè, che è forse vero per una percentuale bassissima di questi luoghi, perché in realtà sono super-luoghi, non sono affatto non-luoghi. E le persone che vi vivono, sono persone speciali, perché combattono una guerra completamente diversa, e hanno dei parametri estetici totalmente diversi. Ad esempio: se tu analizzi il paletto con cui tengono occupato il parcheggio davanti casa, sono sì i paletti che il Comune aveva messo per delimitare le strisce. Non solo gli spazi non sono rispettati, sono segati per modificare lo spazio delimitato ma non sono rimessi uguali: uno inserisce un ricciolino in ferro battuto, uno lo dipinge di rosso, altri con lucchetto legano direttamente lo stendibiancheria. C’è tutta un’idea di estetica funzionale: è tutto un equilibrio delicatissimo tra rapporto culturale, rapporto estetico e quello economico. Ed è molto affascinante e più stimolante rispetto a qualcosa di più definito.

Quindi hai preso queste foto, hai individuato le tematiche, le hai ritagliate, hai creato questa sorta di tenda che non è solamente monitoraggio di quello che accade, ma anche…

No assolutamente. Perché se fosse stato un monitoraggio semplice avrei preso le foto singole indicando quello che ciascuno ha compiuto. Ho voluto rendere sistemica quell’estetica; di non renderla più come un solo atto informale, bensì come qualcosa che fa parte delle viscere, che probabilmente esiste in tutte le città che però le soffocano. Quest’aspetto finanche kitsch della vita in realtà arricchisce la visione, e davanti all’edificio scopri qualcosa di ogni persona che abita all’interno.

È quindi un’identità, che è moltitudine quando vi è uno sguardo superficiale e distaccata, ma che, invece, quando fai il blowup in realtà sono tanti singoli e dettagli che costruiscono quest’insieme che se non ci si addentra appare quasi kitsch.

Il lavoro funziona perché da lontano vedi una cosa, una traccia, delle strade, dei segni, come una mappatura, poi ti avvicini ed entri in tutti questi simboli, che sono la scopa appesa alla finestra, il condizionatore, il tubo, e così via. E quando decidi di avvicinarti, scorpi un mondo. Ed era proprio questo che io volevo: avvicinarsi a quell’estetica senza un preconcetto.

Ho pensato che questo lavoro fosse la continuità di quello che hai realizzato alla Barriera Milanese, e che hai esposto al Museo Ettore Fico di Torino.

 È il contrario. È da queste opere che nasce il lavoro a Barriera. Anzi, mentre finivo il lavoro di Napoli (esposta per la prima volta nel Museo Madre) cominciavo a costruire i ponteggi di Torino, con i quali ho riportato la stessa fragilità del sistema l’ho riportata a livello installativo nella fragilità dei ponteggi.

Quindi tu hai un’idea la sviluppi e poi decidi il media da utilizzare che non è sempre lo stesso. Però dal pop up, che aveva anche quest’intento giocoso, anche in questo caso procedere con quest’utilizzo della fotografia che è documentazione ma che, alla fine, non è documentazione, che non è neanche più documentazione perché diventa un percorso, come un po’ il labirinto che devi trovare l’uscita…

Esatto.

Però andare a individuare la fotografia e decidere di realizzare questa sorta di tenda, qual è stato lo scarto che ti ha fatto pensare a tale processo, che alla fine è un collage…

Prima ho realizzato un grande collage digitale, l’ho stampato, e poi in studio ho iniziato a ritagliare, tagliavo via tutto quello che era legale e che non mi interessava. Qui subentra proprio il mio processo operativo. Tieni conto che provengo dalla pittura. Avevo quindi una tavolozza di colori. Poi ho deciso che questa tavolozza era la società in cui vivevo, in cui ho deciso di stare. E il primo passaggio è stato quando sono arrivato a Napoli e avevo tutti i miei acquerelli li ho miscelati tutti insieme. È venuto un grigio, che ho utilizzato fin quando non è finito, senza più distinguere il singolo colore. E il grigio non è assenza dei toni, ma la somma di tutti i toni. E ho deciso che avrei dipinto col bianco, scavando come scultore. Quindi ho fatto tutti questi lavori in cui il bianco taglia, ridefinisce, fin quando fisicamente ho ritagliato le cose che non volevo vedere.

Infatti, quello che mi ha colpito, è stata proprio la procedura, del togliere il superfluo, fino a far rimanere l’essenza.

Perché questo ha molto a che fare con la mia idea di responsabilità dell’artista. Siamo passati da un periodo in cui all’artista si toglieva ogni tipo di responsabilità: trovava l’immagine e la proponeva come lavoro, fine. Il suo merito era solo quello di aver trovato. Per me non è mai stato così: io sono italiano che pensa che l’arte debba incidere sulla percezione estetica, quindi io devo dare il mio valore come artista e devo assumermi la mia responsabilità. Quindi, anche se trovo documentazione, alla fine non è niente se io non la elaboro, se non esterno il mio punto di vista sull’arte.

Quindi vuoi avallare l’illegale?

Questa cosa ha scaturito molte polemiche. Nel caso più specifico, l’intervento di un paio di anni fa al Museo di Catanzaro, per il quale mi hanno chiesto di realizzare una mostra. Ho accettato proponendo un’installazione. E visto che la Calabria è la regione che ha il maggior numero di edifici abusivi in Italia, ho costruito, in nove giorni, una stanza abusiva di sei metri per tre, attaccata al Museo, in lamiere, intonacata. Da fuori una baracca, come tutti gli abusi; e dentro rifinita con le stesse finiture del museo, con gli stessi faretti, lo stesso soffitto, parquet. Dentro ho esposto tre libri, Il manuale per l’architetto informale, in cui segnalavo: “vuoi fare un abuso nel centro storico? Segui queste regole. Vuoi fare un abuso in periferia? Segui quest’altre regole. Sulla costa? Quest’altre ancora”. Erano le tre aree di Catanzaro che avevo analizzato, scegliendo i trenta abusi migliori per ogni area. Ovviamente è successo un gran caos, in cui mi dicevano, appunto, che io avallavo l’abusivismo. Non è che io lo avallo, non evito di analizzarlo. L’analisi deve essere posta dal punto di vista di un artista: guardo la sua estetica, la studio, e dal momento che diventa sistemica, non sono io che ho fatto gli abusi, però li guardo. E dal momento che li guardo e li sottopongo all’attenzione di tutti e anche un monito. Non è avallare ma prendere atto e considerazione di una città priva di una moralità precostituita.

Ritornando alla responsabilità dell’artista, la tua finalità è questa?

No. La mia finalità è estirpare delle paure, quegli interrogativi personali.

In te, cosa procura monitorare quei luoghi? Dici estirpare le paure: osservando Licola o i vicoli, quali paure hai estirpato?

Era un momento in cui si diceva che non potevi stare in luoghi affollati, che non dovevi frequentare determinate aree, c’era questo panico crescente rispetto a specifici luoghi. E un’azione a Napoli in quel momento, in cui stava risalendo la faida di Forcella, voleva dire: “se un artista vive qui, non cedere alla paura senza un’esperienza diretta”. È importante, perché la realtà la devi percepire. Percepire le cose direttamente è diventato imprescindibile nel mio lavoro.

Questo è il tuo intimo. E all’esterno, all’individuo che vede il tuo lavoro, cosa vuoi trasmettere?

è questo. Perché nei miei lavori trasmetto la mia scelta di contemporaneità, attraverso queste opere. Elaborato il tutto e trovata la chiave per raccontarlo per far sì che l’esperienza da singola diventi collettiva. E lo diventa quando, ad esempio, alcuni di quei ragazzi che hanno monitorato i vicoli, continuano a fotografare e a mandarmi foto, nonostante siano passati quasi due anni. E la mamma di uno di loro mi ha scritto una mail bellissima, dicendomi: “io non la conosco personalmente, la ringrazio, ma mio figlio guarda la città in cui vive in modo diverso e, soprattutto, ha approcciato il modo di vivere in modo diverso”. Perché a loro ho anche detto che il lavoro Questioni di Appartenenza perché questo posto è di chi lo vive non è di chi sta fuori e lo guarda. Tutti loro, hanno avuto il coraggio di guardare diversamente e dire che anche loro avevano il tubo o la veranda abusiva, ed io ho detto loro di fotografarli. Perché affrontare diversamente e frontalmente una condizione, ti cambia. E poi rispetto alla fruizione dell’opera, essa toccano corde che neanche io avevo previsto. Per esempio un avvocato di Parigi che ha preso un lavoro sui ponteggi abusivi dei cantieri della camorra fermati, di cui ho fotografato i ponteggi che lentamente franavano, come se fossero delle rovine antiche. E lui ha preso questo lavoro e lo ha messo nel suo studio perché ci vedeva l’impalcatura legislativa che cadeva a pezzi di un mondo ormai vecchio. Mentre per me era un’impalcatura che manteneva la sua bellezza, anche se poi dietro non ci sarà una casa: perché l’impalcatura permette che succeda un’altra cosa.

 

GIUSEPPE RIPA

Mi piacerebbe parlare con te del lavoro esposto da Romberg, capire come è stato realizzato. Perché, in alcune immagini, gli oggetti sembrano disposti in modo da formare delle sculture, in altre, invece, sembrano colti tal quali. Volevo sapere se era il risultato di una passeggiata, di un tuo voler registrare e documentare, o di denunciare. Perciò com’è nato il progetto di queste fotografie?

La parola progetto è quella giusta, perché, appunto, io lavoro per progetti. E questo è quello sul quale lavoro da più tempo, perché è iniziato nel 2011. Tutti i progetti precedenti hanno visto anche la pubblicazione in un libro. Questo è ancora un working in progress, e non ha una pubblicazione. Spero poi di poter esporre il lavoro nella sua totalità, perché finora è stato mostrato a pezzi a partire proprio da ArteFiera già nel 2014, poi nel 2015, nel 2016 e quest’ultima del 2018. È perciò la quarta volta che è esposto nella fiera. Poi è stato esposto al Festival dei Due Mondi nel 2013 e nel 2017, ma sempre per sezioni, come polittici. Quelli in fiera, Forgetful & Forgotten e Home Ground, hanno fatto parte di un progetto site specific per il Laboratorio della Ricostruzione diretto da Boeri e per il Festival dei Due Mondi. È, quindi, un progetto impegnativo e interroga la nostra società contemporanea, alcuni problemi che sono alla base di un rapporto, spesso conflittuale, tra natura e cultura. Da qui si aprono altri tempi, come quelli dei migranti senza casa, anche richiamati dal Laboratorio della Ricostruzione. È quindi un progetto che riflette e vuole interrogare, ovviamente con il linguaggio dell’arte, alcune problematiche della storia recente, in particolare quella del nostro paese. E quale miglior teatro della spiaggi per riflettere anche su questa escalation che ha subito la storia recente, anche in termini di drammaticità, e la spiaggia ne è testimone, con i suoi sbarchi. C’è stato un reversal della concezione della spiaggia: da luogo di svago, di socialità, di vacanza, è diventato anche luogo di tragedia. Questo è un terreno “privilegiato”: non sono l’unico ad aver scelto la spiaggia come luogo privilegiato dove ambientare i rispettivi lavori. E non è un caso, perché è un territorio di confine tra il mare e la terra; dove il mare rappresenta un po’ la speranza, mentre la terra con i suoi eventi, drammi, tragedie. È un progetto artistico che riflette anche sulla tematica dei senza casa, dell’abitazione, ma nel senso della comunità, dello stare insieme. Quanto ripreso nelle fotografie Home Ground, non sono altro che capanni marini sull’adriatico che io ho inteso un po’ come moduli primordiali, e anche minimalisti, di abitazione. Sono delle impalcature dove si ha la sensazione di entrare e di uscire allo stesso tempo. Quindi la casa senza barriere, aperta, in contrapposizione alla tendenza di oggi di costruire muri, quindi intesa come un invito alla convivenza. È un’architettura umana. Ogni capanno può anche suggerire diverse culture, storie. Ad esempio in una fotografia, c’è una porta che io l’ho trovata così, che, anziché essere messa in verticale, è in orizzontale e quindi, invece di essere utilizzata per aprire, sembra essere utilizzata per chiudere, per sbarrare, per fare da barricata. Anche Forgetful & Forgotten hanno un significato sociale. Il titolo è ripreso dai versi di T.S. Elliot come sono i migranti, che hanno perso la memoria del loro passato e non si riconoscono nella precarietà del loro presente.

Sono oggetti ripresi tal quale oppure sono disposti da te?

No, in questo caso non sono intervenuto se non a livello concettuale, come nel caso del materasso, ripreso da quattro angolazioni diverse: ho girato intorno e, in questo modo, ho creato un po’ l’impressione che giri anche il materasso.

Quindi, andando lungo la spiaggia, cercavi delle cose o le cose hanno trovato te?

Cercavo delle cose. Perché è un progetto ben chiaro fra i rifiuti il caos e cerchi di dare un ordine, un significato.

Lavorando per progetti, hai avvertito l’urgenza in virtù della storia recente e quindi scelto la spiaggia per il significato che essa ha, per essere di confine e di accogliere storie e tragedie, oppure è stato nell’osservare la spiaggia e quello che vi succedeva che ti ha suggerito l’idea del progetto? Quindi com’è nato?

La prima. Avevo già un’idea che ho formalizzato andando su quella spiaggia. Poi da un punto di vista puramente di location, la spiaggia, con il suo sfondo “neutro”, mi permette di focalizzare meglio perché gli oggetti sono risemantizzati meglio. E gli oggetti/soggetti sono tra i più disparati: dai materassi a quei moduli abitativi, si è passati a forme primordiali di architettura, per dare un respiro sociologico ma anche antropologico.

Oltre a testimoniare le varie tragedie che le spiagge possono accogliere, questi oggetti hanno anche una volontà di denuncia ambientale? Di trascuratezza?

Sì, però il caos, molto spesso, per gli artisti è anche fonte di riflessione di stimolo. È uno dei temi di rapporto natura/cultura squilibrato. Ma anche oggetto di elaborazione concettuale. Come, ad esempio, il tubo rosso di corrugato che esce fuori dal quadro, può suggerire anche altri temi: il primo, uscendo fuori dal quadro, la rottura dello schema precostituito; l’altro di riflessione sul mezzo utilizzato, è la volontà della fotografia di superare il suo limite, che è quello fisico della sua bidimensionalità, sembra uscire dal quadro per cercare un’altra dimensione.

Oltre ad avere diversi livelli di lettura, il tuo lavoro lo ho avvertito prossimo se non parallelo a quello di Eugenio Tibaldi che, attraverso un monitoraggio fotografico dei vicoli di Napoli, è andato ad individuare una forma bellezza in quegli elementi “illegali”, non belli, come la testimonianza di una vitalità umana che trova un equilibrio, un compromesso tra il luogo in cui vive e le regole sociali. Anche lui ha effettuato delle passeggiate e ha individuato questi luoghi di confine. Per questo mi domandavo quale fosse stata la pressione che ti ha spinto a tale ricognizione. Anche quanto mi ha esposto, l’ho avvertito contingente in diversi punti a Tibaldi, individuando la marginalità degli individui. Anche per te c’è un margine, di queste persone che, dopo aver affrontato un viaggio, sono costrette a vivere nei margini. Questa vicinanza per te è fondata?

Secondo me è corretta. Perché sin dalle mie prime opere come Anima Mundi che è un po’ una visione di uguaglianza fra gli uomini e le donne, fra tutte le religioni; come anche in Acquarium, con il mare visto con i limiti del diverso, come spunto per una riflessione sul diverso, sull’emarginato; come anche Light, e su Liminal. In fondo è anche una caratteristica italiana, di essere accogliente. È, comunque, un segno che diversi artisti italiani stiano tornando a riflettere su tematiche sociali, perché non si può rimanere indifferenti rispetto a quello che accade e sta succedendo.

La fotografia è anche quindi un modo di prendere una posizione?

Perché la fotografia, come forma di comunicazione, è politica. Non è neutra. Infatti qual è il limite della fotografia? Che la sua imparzialità non esiste. E questo è un altro tema dei miei lavori, dove cerco di mettere in evidenza a volte il limite fisico, richiamando una terza dimensione; altre volte il limite espressivo è che si spaccia per un mezzo espressivo neutrale che in realtà, e cerco, quindi, di denunciare la falsa neutralità. Come suggerito alcune foto come quelle più surreali, metafisiche, enigmatiche (come i tre leprotti o la boa di Liminal) che rimandano a un’altra realtà.

Quindi per te alcuni artisti stanno ritornando come osservatori sociali. Mentre io non avverto questo loro interesse.

bisognerebbe fare una disamina. Perché se me li rapporti all’urgenza del momento, sono d’accordo con te. Se invece si fa una riflessione sul reflusso degli anni Ottanta/Novante c’è un ritorno. Dipende quindi dal punto di vista con cui si osserva. Per esempio, se si fa un raffronto con gli artisti dell’Arte Povera, l’ultimo grande movimento nel nostro Paese, con una riflessione politica costante, fino a spingersi a punti di grande utopia, gli artisti di oggi non ce l’hanno, sono molto più disincantati, distaccati direi. Come anche nelle mie foto: c’è l’oggetto, lo sfondo neutro che sembra quasi uno sguardo quasi freddo. Però è proprio questa forma di distacco che permette di creare delle forme di espressione non viste. È un punto sottile, che caratterizza gli artisti della generazione attuale con quelli delle generazioni precedenti, perché quella loro utopia sappiamo che non si può realizzare, siamo più scettici, e quindi rinunciamo a quell’utopia di trasformare in toto la società. Però proprio perché si osserva la realtà con più distacco, c’è uno sguardo più approfondito, con nuove forme che consentono di essere originali e dare un’interpretazione della realtà, che resta ancorata al sociale, ma è totalmente differente da quella dell’Arte Povera. Con la consapevolezza che non c’è più quello slancio utopistico, vitalistico, porta a un passo in avanti.

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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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