Ibrahim Mahama Living Grains alla Fondazione Giuliani

Installation view presso la Fondazione Giuliani, 2019; foto di Giorgio Benni

Con l’installazione A Straight Line Through the Carcass of History 1649, è tra i sei artisti che rappresentano il Padiglione del Ghana, per la prima volta presente nella Biennale di Venezia, allestito da Sir David Adjaye (e quel “sir” racconta ancora tanto). Con sacchi di juta, ha impacchettato luoghi carichi di un indiscusso valore storico e simbolico: gli ex caselli neoclassici del dazio di Porta Venezia a Milano (A Friend, 2019 – utilizzando 10.000 sacchi), la facciata del porto di Charlottenborg (Copenhagen, Nyhavn’s Kpalang, 2015 – 12x120m), la Torwache di Kassel durante 14.dOCUMENTA (Check Point Sekondi Loco. 1901-2030, 2015 – ben 1729 m²), e ricoperto i muri di passaggio all’Arsenale durante la 56.Biennale (Out of Bounds, 2015). Fino al 21 dicembre 2019, è presente nella Fondazione Giuliani di Roma con la personale Living Grains.
Solo queste concise e sommarie indicazioni, che si susseguono a ritmo serrato, sono sufficienti a tracciare un esaustivo profilo del poco più che trentenne Ibrahim Mahama, nato nel 1987, a Tamale (Ghana).

 

Formatosi nel dipartimento di pittura e scultura dell’Accademia di Kumasi, ben presto è entrato a far parte del collettivo creato da alcuni docenti blaxTARLINES KUMASI, fucina di incontri e di confronti, che gli ha prospettato nuovi e più ampi orizzonti artistici.

Benché decisamente radicati nella cultura delle sue origini e con una forte impronta duchampiana (per gli interventi di Milano, Copenhagen, Kassel e Venezia, anche un certo sguardo a Jean Christo e ad Alberto Burri), i lavori di Ibrahim Mahama affrontano e elaborano i temi e i problemi della circolazione delle merci e del lavoro, nell’accezione di sfruttamento e povertà, e della migrazione, nell’attuale società globalizzata.

Perché i sacchi di juta, prodotti in Asia, distribuiti in tutto il mondo, sono utilizzati in Ghana per confezionare cacao, caffè, riso, fagioli e carbone per l’esportazione, principalmente verso le Americhe e in Europa; essi alludono, quindi, a coloro che, con diritti ridotti all’osso, li hanno confezionati e movimentati e, essenzialmente, definiscono l’essere umano, e le umiliazioni che sopporta per la propria sussistenza.

Perché, soprattutto sui sacchi utilizzati a Milano, l’artista ha voluto iscrivere nomi e numeri di documenti, a sottolineare l’identità di quelle persone invisibili, quella forza lavoro che opera nei vari segmenti del commercio globale, spesso ignorata, ancora più spesso sfruttata, che vive senza tutele e nella povertà.

E, con queste piccole tracce, insegue soprattutto il proposito di non far perdere la memoria di tali persone e la loro storia. Allo stesso momento, attraverso i sacchi, sottolinea i contorti meccanismi e sviluppi della società contemporanea. Prassi e visione che, in un certo modo, lo pongono obiettivamente nella tradizione tracciata da El Anatsui (1944), Yinka Shonibare (1962) e Kara Walker (1969).

Come in tutte le precedenti esposizioni, anche per questa personale nella Fondazione Giuliani, Ibrahim Mahama si è avvalso della cooperazione di “collaboratori”, grazie ai quali è stato in grado di realizzare Capital Corpses I (2014-2019), la straordinaria installazione ambientale creata con circa duecento macchine da cucito dismesse.

Anche se, così raccolte, a molti hanno ricordato le vetrine del fashion retailer ALLSAINT (di Stuart Trevor), oltre a fare il verso in negativo alle New Hoover Celebrity di Jeff Koons, il richiamo può essere non così insolito.

Come nello store londinese, le macchine da cucito, che ricoprono le pareti, vogliono richiamare la catena di montaggio dei capi di abbigliamento, altrettanto chiaramente l’intento dell’artista ghanese è ribaltarne il significato, sottolineando come quella stessa catena, di frequente, sia portata avanti da quelle persone che, in maniera invisibile, attivano queste macchine, per confezionare capi di abbigliamento che saranno immessi nel mercato della moda di lusso, dal quale ne sono totalmente tagliati fuori.

Allo stesso momento, sottolinea l’obsolescenza serrata di alcuni strumenti, di cui, gli acquirenti, ignorano del tutto il processo. Quell’obsolescenza che concorre alla produzione incontrollata di rifiuti, come denunciato dal video Parliament of Ghosts (2014-2019), nel quale delle persone, nella più grande discarica del mondo, quella di Agbogbloshire di Accra, recuperano i materiali qui depositati, per rimodellarli in nuovi oggetti, il tutto accompagnato dalla voce fuori campo dei dibattiti del Parlamento ghanese negli anni Cinquanta.

Mentre l’installazione Capital Corpses I è di grande impatto visivo, Maps of the Gold Coast (1898-2019) è di forte impatto emotivo. Perché, di fronte al gruppo di “collage” in cui mappe del periodo coloniale in Ghana 1920-50, ormai superate, sono integrate con fotografie dell’avambraccio di donne di piccoli paesi del nord del Ghana, sui quali sono tatuati i loro nomi e i contatti dei loro parenti, affinché possano essere riconosciute, nel caso venissero uccise o ferite durante il viaggio per trovare lavoro verso Accra o in cantiere.

Info mostra

  • Ibrahim Mahama – Living Grains
  • Fondazione Giuliani per l’arte contemporanea
  • via Gustavo Bianchi, 1
  • fino al 21 dicembre 2019
  • orari: da martedì a sabato, dalle 15:00 alle 19:30 – ingresso libero
  • info: www.fondazionegiuliani.org –  info@fondazionegiuliani.org – 06.57301091
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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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