Giulio Bensasson – Losing Control alla Fondazione Cerere

immagine per Giulio Bensasson

Un sotto e un sopra. Luce e buio. Materiale e immateriale. Sono alcune tra le binarie antinomie che caratterizzano le due installazioni site specific e creano una sorta di percorso iniziatico: superando delle prove (certe fobie? talune ossessioni?) si può, probabilmente, giungere ad un determinato equilibrio e, altrettanto probabilmente, ad una visione più cristallina della vita. O, almeno, è quanto suggerisce nella sua prima personale Giulio Bensasson (Roma, 1990).

Suggerimento lanciato già dal titolo della mostra e dalla stessa grafica. Losing Control, scritto con un bel rosa big-bubble, in grassetto, maiuscolo corsivo, con un andamento verso l’alto, come un grido, come uno slogan (ben visibile anche nella copertina del catalogo edito da DITO Publishing. È pressoché d’obbligo, una meritata e brevissima digressione sul  fresco, originale, ben impostato, catalogo. Un “cofanetto” includente il catalogo vero e proprio e due spillati: l’uno, un grazioso flipbook disegnato, racconta l’evolversi di Losing Control #1; l’altro, con le immagini dei dettagli di Losing Control #2 che sbordano sul vivo).

Con la cura di Francesca Ceccherini, realizzata col sostegno della Regione Lazio, mediante la partecipazione all’avviso pubblico Lazio Contemporaneo, all’interno della Fondazione Pastificio Cerere, negli spazi del silos e il sotterraneo del mulino, è una mostra che mette saldamente in relazione, in un bilanciamento perfetto, senza sbavature, i diversi ambienti e i differenti linguaggi espressivi utilizzati dall’artista per rendere manifesta la propria ricerca, essenzialmente rivolta al tema della perdita del controllo, degli effetti che produce e alle sue contraddizioni.

E conduce lo spettatore in una dimensione pressoché onirica, immaginifica, sospingendolo a una ricerca, a continue scoperte, come in una sconosciuta foresta vergine, di cui deve scoprire i profili e i significati, per riemergere, alla fine, con una visione piena di interrogativi, mettendo in discussione le personali convinzioni.

Nel sotterraneo dello Spazio Molini, fortemente caratterizzato da muri segnati dal tempo (e dall’abbandono), in grado di tradurre perfettamente il concetto di caducità, potenti fasci di luce illuminano nivee pareti piastrellate di Losing Control #1.

Pareti che attraverso il loro candore (caricate del significato di simboleggiare l’ossessione di controllo), le superfici lucide, il perfetto stato, riflettono e amplificano la luce, enfatizzando ancora di più lo scarto tra l’opera e il contesto. Con un allestimento altamente scenografico (di certo derivante dalla sua passione per il cinema), queste bianche pareti, come saldi totem, estranei dal contesto, emergono dai muri fatiscenti, creando un’atmosfera straniante.

Per buona parte del percorso, un gradevole profumo, che istantaneamente ricorda quello del borotalco, attiva, in ciascuno, delle personali sinestesie (neonati/bagnetto/pelle morbida).

Ma, man mano che si procede, il profumo svanisce, e prendono il sopravvento gli odori strettamente legati al luogo (muffa/umidità/scarico latrine). Pertanto, per quanto si possa fare, la natura delle cose riprende il sopravvento; per quanto si possa pulire, presi dalla mania di pulizia e di controllo dello sporco, in qualche modo riesce sempre a venir fuori.

Azioni di pulire e detergere nelle quali, l’artista, individua dei vacui tentativi di coprire e rimuovere l’inevitabile memento mori che accompagna l’intera esistenza di ogni individuo. Memento mori ben presente nel passato (la costruzione di imponenti sacelli, la realizzazione di poderose sculture e raffinati quadri ugualmente lo testimoniano) e che, invece, nel nostro attuale presente, accantoniamo, rimuoviamo, (quasi) certi di poterlo sconfiggere.

Al contrario, a rammentare questa caducità delle cose/vita è, anche, una piccola mosca (che ironicamente si ritrova anche nella “copertina” del catalogo) incastonata tra le piastrelle della seconda parete posta ad ostacolo, o comunque, a non rendere agevole il passaggio nella sala successiva. Dove è allestito l’ultimo totem, che troneggia all’interno di un piccolo ambiente, altresì “occupato” da un vibrante suono senza ritmo.

L’opposto di tutto ciò, di nuovo impostato sull’ambiguità, è approntato in Losing Control #2: una grande installazione ambientale (composta da una fotografia, nove mini visualizzatori vintage per diapositive e un grande lightbox), che mette in mostra una piccolissima parte dell’archivio dell’artista Non so dove, non so quando, composto da oltre cinquecento diapositive ammuffite, trovate da Giulio Bensasson nel 2013 in un vecchio studio romano, quindi raccolte e numerate.

L’attacco del tempo, attraverso microrganismi, muffe e funghi (osservazione già condotta anche in precedenti lavori, come Tracce o Slow Motion), ha sciolto il colore delle immagini e liquefatto la pellicola, e quelle immagini su di essa impresse, si presentano oggi come macchie di colori, di accenni di persone, di dettagli sfocati di cose, fluorescenze di colori, perdendo completamente quella definizione che circoscriveva un preciso momento e luogo.

Processo chimico che in Giulio Bensasson ha attivato l’associazione con la memoria e i ricordi dell’uomo: col passare del tempo, per quanto si voglia congelare tutto/controllare tutto, anche loro si fanno meno nitidi, fumosi, più sfilacciati e “dove vanno a finire i ricordi quando ce li dimentichiamo?” è quanto lo stesso artista si domanda.

Info mostra

  • Giulio Bensasson – Losing Control
  • a cura di Francesca Ceccherini
  • Fondazione Pastificio Cerere
  • via degli Ausoni 7, 00185 – Roma
  • fino al 30 luglio 2021 – aperta solo su prenotazione
  • info: t. +39 0645422960 – info@pastificiocerere.it
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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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