La vita nascosta (Hidden Life) – scritto e diretto da Terrence Malick

immagine per La vita nascosta - Hidden LifePiù che una recensione, il mio è un commento a caldo di un film (La vita nascosta / Hidden Life, scritto e diretto da Terrence Malick) che, per me, si poteva risolvere in 20, esageriamo pure, in 25 minuti. E, invece, la tira per ben 173 interminabili minuti.

Idea bella, quella di raccontare la storia di Franz Jägerstätter, un contadino austriaco vissuto nel borgo di Sankt Radegund e che, nel 1938, all’arrivo dei nazisti, fu l’unico del suo paese a votare contro la Anschluss. E che, in seguito, scoppiata la Seconda Guerra Mondiale, nel 1943, si rifiutò di arruolarsi nell’Armata dell’Asse e per ciò giustiziato.

Idea bella, sì, ma sviluppata in maniera niente affatto piacevole, a partire proprio dalle riprese e dalle inquadrature. Tagli eccessivi, immagini distorte (tanto che a un certo punto ho cambiato posto, perché iniziavano a darmi veramente fastidio gli occhi), inquadrature inutili: va bene una volta il cucuzzolo della montagna del borgo di Sankt Radegund, va bene due volte, ma, alla quindicesima volta, anche basta sto cucuzzolo della montagna del borgo di Sankt Radegund!

E inquadratura del cucuzzolo, e inquadrature della finestra, e inquadratura del fiorellino, e diversa inquadratura della finestra, e inquadratura della sedia, e inquadratura del tavolo, e inquadratura della mensola, e inquadratura del palo, e di nuovo inquadratura della sedia, e di nuovo inquadratura della finestra, e avanti così. Sì, va bene che gli ambienti sono utilizzati per riflettere anche gli stati d’animo, ma in 173 minuti li abbiamo più che capiti questi stati d’animo.

E poi, questi silenzi, questi sguardi nel vuoto, con questi tempi dilatati, troppo dilatati, che alla fine stremano anche il più ben disposto spettatore, o almeno io m’ero alquanto stufata.

Sicuramente, anche per la noia, iniziano a saltare agli occhi dei dettagli, che appaiono anche fuori luogo.

Uno: i protagonisti sono contadini, dello sperduto cucuzzolo dell’Austria, e si scambiano lettere che neanche Zola.
Due: entrambi, sia la moglie a casa, che lui in carcere, hanno delle fotografie.
Tre: stanno sempre nel fango e nella terra e i vestiti sono sempre lindi e pinti, e le scarpe lucide, e poi, nb, hanno le scarpe. Una casa ampia, confortevole, con tutti gli spazi divisi, incantevole per i canoni dell’epoca, neanche fossero latifondisti. E alla fine anche l’intento moralistico con l’aforismo di Eliot.

Vabbeh, s’è capito che non m’è piaciuto?

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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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