Manifesta 12 Palermo. alcuni conti che non tornano

Da quassù è tutta un’altra cosa (2018), l’intervento ambientale del Rotor

Sarà stato l’Ufficio stampa che non ha tempestivamente risposto alle mail, ma solo al telefono. O sarà stata la cartella stampa rigorosamente in lingua inglese. Oppure la mappa approssimativa e con l’orientamento a est, anziché col classico nord. Ma la somma di queste premesse non è stata il miglior biglietto da visita della dodicesima edizione di Manifesta. 

La mostra, di marchio olandese, che ha preso le mosse proprio da Rotterdam nel 1996, e pensata come una biennale itinerante, da giugno è approdata a Palermo (anche Città della Cultura 2018). Come ben chiarito dal Comitato, la città è stata “selezionata per la sua rilevanza su due principali temi che identificano l’Europa contemporanea: migrazione e condizioni climatiche, e sull’impatto che queste questioni hanno sulle nostre città. Le diverse stratificazioni e la fitta storiografia di Palermo – occupata da diverse civiltà e culture con forti legami e connessioni con l’Africa del Nord e il Medioriente negli ultimi 2000 anni – hanno lasciato le loro tracce nella società multiculturale, localizzata nel cuore dell’area mediterranea”. 

Nonostante la dichiarata ambizione di “lavorare in modo interdisciplinare accanto alle comunità locali” – come affermato dal citato Comitato – si avverte la mancanza di collaborazione con le realtà attive e presenti nella città. 

Ad esempio l’intervento del Rotor (collettivo fondato a Bruxelles nel 2013) a Pizzo Sella. 

A Palermo, dal 2009, è attivo il collettivo Fare Ala. Da allora, il collettivo ha effettuato dei sopralluoghi nella zona del Monte Gallo che sono stati tradotti in un video, dove si ribalta completamente la visione di questa località: da simbolo dell’abusivismo a meta turistica, luogo di ammirazione e contemplazione. Contemporaneamente hanno dato avvio a trattative col Comune di Palermo per la concessione di libero intervento artistico nel territorio. Comunque, il video in poco tempo diventa virale, tanto da richiamare l’attenzione di stampa e tv nazionali. Pizzo Sella Art Village attira così diversi street artist da tutt’Italia che con graffiti e stencil hanno denunciato lo stato delle cose: 170 abitazioni abusive costruite all’interno della Riserva Naturalistica di Capo Gallo. Da quassù è tutta un’altra cosa (2018); l’azione ambientale del Rotor non presenta niente di aggiuntivo rispetto a quanto realizzato da Fare Ala. Invitare il collettivo palermitano avrebbe avuto un significato sicuramente diverso, perché l’intervento sarebbe stato compiuto da artisti che hanno da tempo mappato il luogo e ne conoscono a fondo il valore e le sfumature. 

Da quassù è tutta un’altra cosa (2018), l’intervento ambientale del Rotor

Un altro esempio? Il Caffè Internazionale, attivo sul territorio di Palermo dal 2015. Gestito da Darrel Shines (tour e production manager) e Stefania Galegati (artista), è un locale multietnico e multiculturale. Qui si svolgono concerti, mostre, workshop. Da due anni, con la collaborazione di Daria Filardo, organizza la Summer School – Scuola Estiva di Arte Contemporanea, che annovera tra i suoi docenti Julieta Aranda, Chiara Camoni, Domenico Mangano, Anetta Mona Chisa, Cesare Viel, Dora Garcia. Ebbene: malgrado gli iniziali contatti, nonché suggerimenti, partecipazione ai primi tavoli aperti e alla visita della città con i curatori accompagnati da guide professioniste, nel corso della definizione della rassegna, è stato completamente tagliato fuori. Lo staff di Manifesta non ha chiesto alcuna collaborazione neanche per le conferenze, tanto che si è creata una coincidenza di date tra le conferenze e gli incontri con critici, curatori, artisti del Caffè Internazionale. Mentre l’offerta per la gestione del party inaugurale non ha mai ricevuto risposta. Alcune indiscrezioni sostengono, addirittura, che ad alcuni artisti e addetti, sia stato sconsigliato di recarsi a visitare il locale. Alla stessa stregua, non è stata richiesta la partecipazione neanche al progetto 5x5x5 né al Caffè né alla roots§routes (attiva dal 2011). Dapprima come Cooperativa, attualmente come Associazione, Routes Agency ha al suo centro l’attenzione alle diverse declinazioni della difficult heritage, attraverso un approccio legato agli studi culturali e postcoloniali, con particolare cura alle relazioni col colonialismo, con le migrazioni, con le memorie storiche, avendo al suo centro la ricerca artistica che guarda principalmente alla relazione e alla reciprocità. Numerosi sono le iniziative artistiche, culturali ed educativi, organizzate anche e, soprattutto, nei luoghi confiscati alla mafia, come altrettanto numerosi sono stati convegni, seminari e summer school programmati, sperimentando le pratiche artistiche come strumento di contrasto alle culture mafiose. Si precisa che 5x5x5 è il nuovo progetto collaterale che prevede 5 artisti in residenza in spazi pubblici o privati della città di Palermo, 5 mostre temporanee di gallerie italiane e internazionali, 5 scuole –accademie, università o altri istituti educativi- che realizzano corsi e/o programmi estivi.

Un altro esempio? Becoming Garden, il giardino progettato nel quartiere ZEN. Sorvolando sul fatto che nonostante il progetto tiri in ballo il noto paesaggista Gilles Clément, che finora – data della redazione dell’approfondimento – non ha messo piede in città, è stato completamente affidato allo studio francese Coloco (attivo dal 1999). Lo Studio ha inglobato quanto finora realizzato da altri, come dall’Associazione Handala (molto attiva nel territorio in numerose iniziative, vuoi con le scuole vuoi nella tutela della violenza di genere e così via), senza coinvolgerli nella parte esecutiva del progetto. Col roboante titolo Il Giardino Planetario. Coltivare la Coesistenza, spalmandosi, come prassi, su diverse sedi sparse nel centro abitativo, mostra alcuni punti deboli nella scelta dei siti e dei lavori in essi installati. L’approccio del team curatoriale, oltre a lasciarsi profondamente influenzare dal fascino di alcune architetture, appare molto prossimo all’atteggiamento colonialistico nei confronti di quelle culture ritenute non particolarmente sviluppate, rimanendo in superficie, senza indagare quanto, al contrario, la città immensamente offre. Una fascinazione delle architetture che hanno sempre preso il sopravvento sulle opere, divenendo, difatti, i principali soggetti di ogni esposizione (lo attestano le numerosissime immagini circolate sui social, che si sono soffermate più sulle sedi che sulle opere esposte). 

Cooking Sections, What Is Above Is What Is Below (2018), installazione e performance. In collaborazione con: Giuseppe Barbera, Antonio Motisi, Manfredi Leone, Valentina Mandalari (Università degli Studi di Palermo), Gaetano Cascino (Libera), Piero D’Angelo (Parco Uditore) – Foto di Wolfgang Traeger

Si avverte che la manifestazione, come spesso accade anche per altri eventi, è principalmente indirizzata agli addetti: sono pochi gli abitanti che si sono accorti di quest’avvenimento: conferma data dalle facce stupite dei negozianti, dei barman come dei tassisti alla parola “Manifesta”, i quali, seppur notoriamente non molto informati, sono la cartina tornasole della circolazione delle notizie in città, essendo a stretto contatto con abitanti e turisti.

Senz’altro, il merito più grande, è quello di aver consentito, a un gran numero di persone, di accedere a dei luoghi abitualmente ammirati solo dall’esterno. Ma l’esclusiva predilezione per questi spazi romanticamente fatiscenti, alla fine risulta stucchevole, una sorta di cliché, rispondente a una forma pressappoco pregiudizievole, che vede, come principali e uniche peculiarità della città, le rovine e la mafia.

Aver installato, ad esempio, delle opere all’interno dell’Orto Botanico, è come organizzare un grande evento nella Capitale e svolgerlo al Colosseo: è voler vincere facile, ignorando, in tal modo, tutti i piccoli e grandi tesori che, invece, la città custodisce. L’Orto Botanico è sicuramente maestoso, imponente, carico di storia e di energia, ma è la tappa classica di qualsiasi tour turistico: nessuno si esime dal visitarlo.  Ma giardini altrettanto solenni sono sparsi per la città, e Manifesta poteva essere la cosiddetta buona occasione per dirottare il pubblico verso questi beni meno conosciuti e offrire una visione meno stereotipata. Il Giardino Inglese di via Libertà, o Villa Garibaldi in piazza Marina, con una vegetazione altrettanto mozzafiato, sono i primi due esempi che mi vengono in mente.

A ciò si somma la scelta dei lavori qui esposti che appaiono didascalici e tautologici. Vedi Palermo Herbal di Malin Franzén (Stoccolma, 1982) e le sue “stampe naturali” delle piante che riescono a crescere nonostante la presenza di sostanze tossiche, ricollegandosi al noto botanico siciliano Paolo Boccone, e per questo esposte nel Ginnasio, comprendente l’Herbarium (!).

Oppure Foreign Farmers di Leone Contini (Firenze, 1976), un lavoro prossimo alla scoperta dell’acqua calda: lo stesso Orto Botanico dimostra che le piante da sempre sono in grado di acclimatarsi e coabitare e costruire un pergolato nello spazio dell’ex giardino coloniale dove, all’epoca, erano, appunto, svolti gli esperimenti di acclimatazione, è quanto di più scontato si poteva ideare.

Solamente due esempi che illustrano come l’assenza di una riflessione più articolata abbia prodotto una didascalica banalizzazione di un ragionamento, forse, anche più complesso, che sarebbe stato sicuramente più efficace, stimolante e spiazzante, se decontestualizzato. È di questi giorni anche la (sterile) polemica sull’opportunità o meno di installare “in un luogo pubblico, frequentato da famiglie con bambini, un lavoro così scandaloso e di così cattivo gusto, quasi pornografico, non adatto ai minori” (riassunto di alcuni commenti ascoltati in loco e letti sui social), riferendosi al video Pteridophilia di Zheng Bo, nonostante la didascalia avverta del contenuto non adatto ai minori di 16 anni, perché alcuni giovani fanno l’amore con le piante di una foresta di Taiwan.

Nel cortile del Palazzo Ajutamicristo, che non si è avuta l’accortezza di ripulirlo dalle deiezioni canine, la scelta di collocarvi Call-A-Spy, la cabina telefonica di telecom di The Peng! Collective (collettivo fondato nel 2013 a Berlino), risulta un po’ infelice: un puntino rosso nella maestosità del cortile, quasi completamente avvolto e sopraffatto dai rami del gigantesco albero di fico qui presente, non riuscendo assolutamente ad armonizzarsi con lo spazio, risultando piuttosto un’azione folcloristica.

L’unico lavoro nella sede sperduta del prezioso e defilato Istituto Padre Messina, sulla cui facciata svetta la significativa scritta “Charitas – Orfani ed Abbandonati”, costringe il visitatore a percorrere diverse centinaia di metri nel nulla, per visionare un video con un impianto anni Settanta, tra il dilettantismo e lo scontato. È il caso di New Palermo Felicissima di Jordi Colomer (Barcellona, 1962) installato nel triste salone dell’Istituto: un video, secondo me, stilisticamente e tecnicamente insipido e allestito senza particolare cura, che faticosamente, grossolanamente, tenta di illustrare con una processione (!) laica in barca, il territorio della Costa Sud, partendo dalla Caletta di Sant’Erasmo.

In questa porzione di città, l’artista palermitano Domenico Mangano (Palermo, 1976) è vissuto fino a quando, nel 2010 circa, si è trasferito ad Amsterdam. Ne conosce ogni anfratto, ogni segreto, ogni sviluppo, ogni racconto, ogni memoria. E anche qui, dopo gli iniziali contatti e relativi studio visit, tutto è scemato nel nulla, preferendo un artista che ne “ha sentito parlare”, piuttosto di un artista locale, che questa terra ce l’ha nel sangue e nel suo lavoro artistico.

Jordi Colomer, New Palermo Felicissima (2018), performance, video installazione. – Foto di Wolfgang Traeger

Realizzare delle processioni a Palermo è come realizzare un lavoro con gli orologi a cucù in Svizzera.

Un programma ricco quello di manifesta, di sedi e di eventi collaterali, che però non hanno avuto una particolare attenzione nella fase organizzativa, che doveva essere accompagnata da accordi ben precisi, perché risulta del tutto infruttuoso scegliere sedi aperte solo fino alle ore 13 (vedi Palazzo Mazzarino). Oppure che aprono dalle ore 17 alle 20 (vedi Palazzo Oneto di Sperlinga). O chiusi il sabato e la domenica (vedi Museo di Geologia “G. G. Gemellaro”) – giorni classicamente utilizzati da coloro che non hanno preso parte al vernissage e abitano in città diverse da quella ospitante. Oppure Teatro Massimo, visitabile solo con visita guidata e con biglietto a parte precedentemente prenotato. O delle mostre che si sono volute per forza inserire nel programma, ma che strappano un sorriso per non piangere (vedi la mostra allestita nell’Oratorio di San Mercurio dove delle immagini, di grande formato, grossolanamente intelaiate, riproducono delle pitture di artisti diversi e sono mestamente poggiate sulle panche dell’oratorio). 

Tutto ciò richiede uno sforzo organizzativo notevole da parte del pubblico, che non immagina orari diversi a seconda delle sedi e non ricava simili informazioni dalla mappa fornita. 

Alcune sedi risultano inadatte ad accogliere i lavori. È il caso della Chiesa SS. Euno e Giuliano, la cui umidità sta seriamente interessando i lavori su carta di Marinella Senatore (di cui, per inciso, alla data 7 agosto non era ancora possibile visionare il video della performance realizzata durante l’opening) che goffamente sono appesi sulle pareti, quasi a ricoprirle completamente; mentre la scelta di realizzare degli stendardi con frasi idiomatiche attinte dal dialetto siciliano per poi tradurle in lingua inglese, appare bizzarra, perché nella traduzione si perde completamente la portata del dialetto. 

Alcuni lavori sono allestiti in modo così accademico da risultare arcaico. Vedi Terra di me di Bianco-Valente paratatticamente e didascalicamente approntato a Palazzo Branciforte su dei pannelli bianchi disposti a denti di sega, che non consente una visione globale del lavoro. 

Altro elemento che salta agli occhi è l’impianto stesso delle opere: gli artisti, salvo rarissime eccezioni, non sono riusciti ad esprimere in modo autonomo e indipendente la propria poetica attraverso il loro personale linguaggio, ma l’hanno piegata alla rassegna.

Vedi Yuri Ancarani (Ravenna, 1972): pur nella perfezione della sua tecnica, in Lapidi non è riuscito ad evitare il giogo dell’associazione automatica Palermo/Mafia/Lapidi, mostrando quindi con una carrellata di immagini le diverse lapidi degli ammazzati dall’organizzazione mafiosa. Mentre Whipping Zombie, realizzato ad Haiti sul rituale legato ai culti di trance e possessione, risulta essere una forzatura nell’economia dell’intera manifestazione. 

Ancarani Yuri, Lapidi. Video 2018. Foto di Wolfgang Traeger

Altrettanto soggiogate sono state Tania Bruguera (Havana, 1968) con Article 11, e Laura Poitras (Boston, 1964) con Signal Flow, hanno attirato l’attenzione sul Muos (Mobile User Objective System) americano a Niscemi, contro cui i siciliani NO-MUOS combattono da oltre trent’anni, alla stessa stregua dei NO-TAV, ma che in pochi conoscono, ciò dovrebbe far riflettere sul livello della comunicazione.

Laura Poitras, Signal Flow, 2018. Installazione

Plausibilmente, alla luce di tutto questo, che in modo netto e deciso risalta il bellissimo ed elaboratissimo lavoro di Cristina Lucas (Jaen, 1973) nella Casa del Mutilato. Unending Lightning è una video installazione a tre canali di sei ore che mostra tutti i bombardamenti aerei sulle aree civili che, dal 1911 (anno della guerra italo-turca), si sono susseguiti sino al maggio 2018, attingendo le informazioni dal database che diversi gruppi di ricerca hanno creato negli ultimi cinque anni. È impressionante vedere come, in più di un secolo, quasi ogni giorno, da qualche parte del mondo, è stata lanciata una bomba che ha colpito dei civili.

Cristina Lucas, Unending Lightning, installation view at Casa del Mutilato. Copyright Manifesta. Foto di Wolfgang Traeger

La macchina-Manifesta si è sempre più trasformata in un happening, che in una reale azione di riflessione e operazione culturale.

I progetti selezionati, oltre a non essere né innovativi né di ricerca, hanno proposto, in maniera diffusamente didascalica, concetti basici largamente noti, incapaci di scavare in profondità la complessità storico-culturale di una città come Palermo.

Le sedi individuate, seppur potenti, proprio per la loro peculiarità, hanno spesso fagocitato i lavori: pochissimi sono stati quelli capaci di imporsi allo spazio o dialogare con esso, o liberarsi dai condizionamenti del luogo, esprimendosi in modo autonomo. Perché non è possibile conoscere fino in fondo una realtà, per giunta complessa come quella di Palermo, in veloci e ristretti soggiorni.

Manifesta 12 Palermo

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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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