Par tibi, Roma, nihil – Percorsi inediti sul Palatino

Daniel Buren, La scacchiera arcobaleno ondeggiante, 2016

Annunciata come un evento, Par tibi, Roma, nihil – Percorsi inediti sul Palatino è sicuramente una mostra che esibisce i muscoli. Le opere di ben trentuno artisti, selezionati dalla curatrice Raffaella Frascarelli, sono state infatti disseminate nella suggestiva cornice del Palatino. Per la precisione nelle Arcate sostruttive del Complesso Severiano (la parte del palazzo imperiale rimaneggiato da Settimio Severo) e la relativa terrazza, nello Stadio Domiziano, nella Domus Augustana e nella Meta Sudans.

E a queste opere si affiancano le performance di cinque artisti (Meris Angioletti, Tomaso De Luca, Emiliano Maggi, Sissi e Nico Vascellari), svolte con una puntuale calendarizzazione. Con il materiale rigorosamente distribuito nelle cartelline giallo canarino della Soprintendenza Speciale per il Colosseo e l’Area Archeologica Centrale di Roma, subitamente vengono focalizzati anche gli attori del più ampio programma Patrimonio storico e creazione contemporanea, vale a dire un progetto che vede coinvolti, per l’appunto, l’appena citata Soprintendenza e la Fondazione Romaeuropa Arte e Cultura. Amplifica l’eco della manifestazione il fatto che questa parte del Palatino è rimasta chiusa al pubblico per svariati anni ed ora, anche attraverso questa mostra, si vuole dare un particolare risalto alla sua riapertura e al suo inserimento nel percorso di visita dell’intero complesso archeologico.

Non immune dalla fascinazione del patrimonio culturale della Capitale, anche questa mostra si inserisce in quella scia di esposizioni che periodicamente sono allestiste e vedono le opere di artisti contemporanei affiancarsi ai resti archeologici di Roma, con il desiderio di riaffermare quella continuità artistica dal passato al presente e per far ottenere al contemporaneo una sorta di riconoscimento per unzione, volendo sottolineare l’assenza di cesura che il grande pubblico invece avverte. Con modalità spesso fortemente didattiche, le opere sono state così collocate in quegli spazi in cui razionalmente è stato individuato un preciso significato simbolico, focalizzato da specifiche parole chiave che la curatrice ha dispensato per ciascun lavoro. Parole chiave che mirano ad indicare diversi livelli di lettura che sono accuratamente spiegati nelle didascalie attaccate direttamente sui muri dei resti archeologici – come le opere di Pascale Marthine Tayou, Maria Adele Del Vecchio e Flavio Favelli.

Con l’intenzione di mettere dunque a confronto il contemporaneo con l’antico, con l’archeologia, tale forza osmotica rigenerativa di entrambi si realizza in maniera netta e profonda nell’unica opera site specific. È innegabile la potenza de La scacchiera ondeggiante delle trentacinque bandiere quasi totemiche di Daniel Buren, che con il loro fluttuare al vento, continuamente mutano la percezione della sommità della Terrazza/Septizodium e che, come un trofeo, indicano e danno delle puntuali coordinate, le stesse che dava il ninfeo voluto da Settimio Severo così sontuoso e ricco da impressionare le delegazioni che raggiungevano a Roma. Se per confronto si intende la giustapposizione di opere nella cornice antica e il loro naturale inserimento, Par tibi, Roma, nihil ha pienamente centrato il suo obiettivo, confermando che l’arte contemporanea riesce a collocarsi in qualsiasi spazio, anche in ambienti fortemente caratterizzati come quelli del Palatino.

Ciò non diminuisce la curiosità che, invece, si sarebbe voluta soddisfare nel constatare come invece gli artisti di oggi si sarebbero rapportati con questi spazi inediti, verificando come avrebbero dialogato con la cornice e quali declinazioni avrebbe acquisito il relativo lavoro. Le opere selezionate sembrano piuttosto raccontare l’idea che accompagna la creazione di una collezione, esplicitando le motivazioni che possono spingere un collezionista a quella precisa acquisizione anziché a un’altra. Offrono, cioè, l’opportunità di intuire le eterogenee tematiche e le diverse declinazioni che un lavoro può raggiungere nei diversi contesti e nelle diverse occasioni. In sintesi raccontano il significato che il curatore ha voluto dar loro per inserirle nel suo personale discorso. In tal modo, molte opere riescono a inserirsi con un agio nel contesto individuato, come ad esempio Loser di Piero Golia, la roteante monumentale scrittura che cambia di continuo il suo senso e la sua visione proprio per il girare delle sue lettere; Cancel1-2 di Giulio Delvé, un’inferriata che l’artista ha prelevato a testimonianza di come un infantile intervento -l’apposizione di lattine a copertura dei suoi spuntoni- un oggetto possa radicalmente mutare la sua funzione perdendo quella primigenia; Evidence di Adrian Tranquilli, il niveo supereroe che come in croce cerca di ritrovare una concentrazione forse per ricordare a se stesso anche la sua missione.

Altre risultano un po’ penalizzate dal rigore storico-archeologico, come Sweat Tree di Sislej Xhapha approntata nella Meta Augustea e Meta Sudans, quindi fuori dell’area del Palatino, tra l’Arco di Costantino e il Colosseo. Posta nell’aiuola tra questi due monumenti, la suggestiva fontana allude all’incontro, alla solidarietà, con quelle mani che si sovrappongono l’una sull’altra a formare un’altissima pertica. Ad essere indeboliti, pur conservando la loro intrinseca forza, bellezza e poesia, sono i video (di Elisabetta Benassi, Masbedo, Rosalind Nashashibi, Marinella Senatore, Guido van der Werve) che non hanno quella cura allestitiva che invece necessitano sempre. Benché vista in diversi contesti (recentemente all’Hangar Bicocca nella personale a lui dedicata, ma anche a Roma stessa in una passata edizione di Temporaneo, sempre organizzato dalla Nomas Foundation), They are Lucky to be Bourgeois Hens II di Petrit Halilaj mantiene intatta la sua ironica denuncia.

Riprendendo la forma dei pollai dell’Europa dell’Est allo stesso tempo fa il verso a un razzo spaziale col quale l’artista invita alla scoperta di un mondo nuovo; abitato da galline “borghesi” incapaci di volare falliscono la possibilità di costruire un missile funzionante in grado di portarle sulla luna. Di grande impatto, anche visivo, a marcare l’inizio del percorso è il lavoro vermiglio di Marko Lulić, Death of the Monument col quale mette in discussione la portata ideologica del monumento stesso. Di indiscussa portata lirica è Scolpire il Tempo di Giorgio Andreotta Calò che, con le sue sculture bronzee, attiva il potente richiamo alla fragilità di Venezia sospesa e in balia di quell’elemento che ne ha fatto la sua bellezza unica, l’acqua, che è al tempo stesso la sua più grande nemica da controllare e temere, sempre.

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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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