Inge Morath. La vita e la fotografia tra Ernst Haas, Robert Capa, Cartier-Bresson e Marilyn Monroe

Dopo Treviso (Casa dei Carraresi, 28 febbraio-9 giugno 2019) e Genova (Palazzo Ducale, 21 giugno-6 ottobre 2019), giunge a Roma, per la sua terza e ultima tappa, la retrospettiva sulla fotografa Inge Morath. Un percorso, quello compiuto dalla mostra, di cui sono scarse le indicazioni. Che, invece, avrebbero potuto chiarire le scelte, non solo allestitive, ma, anche, e soprattutto, curatoriali, a partire, per l’appunto, dalla selezione delle immagini e delle dodici sezioni che con esse sono state costruite.

Curiosi sono i diversi appellativi attribuiti a Inge Morath, da fotografa a fotoreporter a fotografa di scena, scrittrice, viaggiatrice, ricercatrice, e così via. Nell’insieme, indicano quanto la sua figura sia particolarmente articolata e sfaccettata. Poliedricità che sicuramente ha spinto gli organizzatori a compiere delle scelte espositive molto nette, come evidenziato dal titolo della mostra stessa.

Infatti, le centoquaranta foto in bianco e nero, esposte nel Museo di Roma in Trastevere, dal 30 novembre 2019 fino al 19 gennaio 2020, come dichiarato dal titolo stesso della retrospettiva “Inge Morath – La vita. La fotografia”, curata da Marco Minuz, Brigitte Blüml–Kaindl e Kurt Kaindl, pongono l’accento essenzialmente su “La vita” della fotografa austriaca di nascita e americana di adozione, e sull’importanza e il ruolo che “La fotografia” ha svolto per tutto il corso della sua esistenza. Centoquaranta foto che principalmente mirano, come detto, a delineare Inge Morath come persona anche fotografa. Non a caso, invero, il percorso espositivo, si apre con un cospicuo numero di immagini che la ritraggono in contesti e periodi diversi, realizzate da personaggi a lei vicino. Apertura che delinea da subito le frequentazioni e i legami, affettivi e professionali, coltivati nel corso della sua vita.

Nata a Graz nel 1923, dopo gli studi di Lingue a Berlino (dove si sera trasferita in seguito all’annessione dell’Austria alla Germania da parte del Reich) ed essersi rifugiata a Parigi nel 1949, entra, nello stesso anno, nella famosa agenzia Magnum da una porta laterale, non come fotografa, bensì come una sorta di segretaria-scrittrice-traduttrice-ricercatrice. Attività che, però, le consente di entrare in contatto con i grandi fotografi che orbitavano intorno alla prestigiosa agenzia, quali Ernst Haas, Robert Capa, Henri Cartier-Bresson, apprendendo da loro le tecniche e le astuzie.

È, difatti, con Ernst Haas che Inge Morath aveva iniziato a collaborare scrivendo i testi per i suoi reportage. Ed è lo stesso Robert Capa che la invita a lavorare nell’agenzia come redattrice e ricercatrice, di cui diviene fotografa a tutti gli effetti nel 1955 (con Eve Arnold le uniche due donne dell’agenzia), dopo aver operato per un biennio anche come assistente di Henri Cartier-Bresson. Al 1955 risale, appunto, uno dei suoi primi servizi fotografici realizzato a Venezia, seguito dalla pubblicazione del libro fotografico Venice Observed: un viaggio, quello nella Serenissima, che le conferma quell’entusiasmo verso la fotografia, già sperimentato a Londra nel 1951, durante la sua permanenza col primo marito, il giornalista Lionel Birch.

Il profondo interesse per le civiltà diverse (non si manca mai di sottolineare il fatto che parlasse fluentemente ben cinque lingue), la portò a viaggiare per il mondo: Francia, Inghilterra, Spagna (dove si recò diverse volte), Iran, Russia, Romania, Cina, sono solo alcuni dei paesi da lei visitati, mostrati e immortalati nei suoi scatti. Mentre, la sua passione per la cultura la portò a frequentare artisti, letterati, scrittori, attori: indimenticabili sono i suoi scatti ad Alberto Giacomelli (in mostra), Arthur Miller (conosciuto sul set Gli Spostati e sposato nel 1962), Marylin Monroe (altrettanto indimenticabili i suoi scatti a piedi nudi sotto l’ombra di un grande albero, intenta a ripassare la parte nel suindicato film – scatti anch’essi in mostra), il disegnatore Saul Steinberg (conosciuto durante il suo primo viaggio nella Grande Mela nel 1956 e del quale resta famoso il progetto Le Masque, maschere realizzate con sacchetti di carta e fatti indossare agli amici, progetto immortalato nei suoi scatti -alcuni in mostra- e in un libro fotografico del 1967).

Con un andamento rigidamente cronologico, le fotografie scelte sono state raggruppate nelle sezioni che mirano a illustrare, pressoché interamente, l’arco di vita della fotografa: scelta, questa, che se da un lato consente di avere uno sguardo complessivo di Inge Morath, dall’altro non concede la possibilità di approfondire la sua visione né metodo, se non in maniera superficiale.

Ciò perché ogni sezione è sviluppata con un numero talmente ridotto di scatti (da un minimo di due a un massimo di cinque), che non si riesce ad afferrare nella pienezza quel determinato progetto, e quindi viaggio. Quella pienezza di cui si ha una forte percezione da un certo numero di locandine attestanti le diverse mostre fotografiche organizzate nell’arco della sua vita, in spazi e gallerie sparse per il mondo. Quell’amore per la fotografia dichiarato in una sua lettera in tedesco: sebbene sia indicata come spartiacque di Inge Morath, non è accompagnata da una traduzione e, pertanto, è difficile cogliere il pensiero e lo slancio. Infine, il colore giallo acido che ricopre alcune pareti, affatica la visione delle immagini.

Fotografie dalle quali, tuttavia, emerge la sua predilezione per l’elemento umano, di cui ne realizza intensi ritratti di atteggiamenti e abitudini, descrivendo degli interessanti spaccati di vita quotidiana, fissati attraverso quel famoso “momento decisivo” di piena derivazione del suo principale maestro Cartier-Bresson. Una narrazione dalla quale non sottrae neanche la sua quotidianità, ben rappresentata dagli scatti del suo studio-rifugio a Roxbury, nel Connecticut dove si stabilì definitivamente con Arthur Miller.

Il percorso, però, si conclude con un momento di grande lirismo; sulla stessa parete di fondo, sono poste due immagini: un suo autoritratto realizzato a Gerusalemme nel 1958 attraverso uno scatto del suo riflesso su uno specchio, nel quale appare con una maglia a righe, capelli corti, sguardo deciso, con l’apparecchio fotografico in mano all’altezza del suo viso, che, nel corso del tempo, è divenuto una sorta di immagine-icona, e l’altra che corrisponde all’ultimo scatto realizzato da Inge Morath poco prima della sua morte (2002), fortuitamente ritrovato in una pellicola non ancora sviluppata, in cui la fotografa aveva ripreso quel suo ritratto, poggiandovi sopra alcuni elementi floreali e poi fotografato.

Info mostra

  • Inge Morath – La vita. La fotografia
  • fino al 19 gennaio 2020
  • Museo di Roma in Trastevere
  • piazza di sant’Egidio – Roma
  • orari: da martedì a domenica dalle ore 10.00 alle ore 20.00; chiuso il lunedì
  • ingresso: biglietto intero € 9,50; ridotto € 8,50
  • info: 060608 – www.museodiromaintrastevere.it
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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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