Ai Weiwei – Il giardino incantato delude

Horse purple should be with showcase

Di solito siamo abituati a ben altri nomi come specchietto per le allodole. Caravaggio, Monet, Manet, Impressionisti, Matisse, sono quelli più inflazionati negli ultimi anni. Mai mi sarei aspettata che Ai Weiwei (Pechino, classe 1957), uno tra gli artisti più famosi al mondo, potesse rientrare in questa rosa.

Fra gli artisti di punta della Galleria Continua, a volte più noto per la sua storia personale (non si dimentichi che, appena nato, ha visto arrestare e deportare suo padre, il poeta Ai Qing, in un campo di lavoro nello Xinjiang fino al 1975; trasferitosi negli anni Ottanta a New York, è rientrato dodici anni dopo nella sua città natale in occasione della malattia e poi morte del padre) che per le sue opere, ha all’attivo mostre allestite in tutto il pianeta, sin dalla sua partecipazione alla Biennale di Venezia del 1999.

Come non ricordare l’incantevole Sunflower seeds? Con i suoi 100 milioni di semi di girasole, simboleggianti le vittime delle carestie provocate da Mao Zedong, che la propaganda cinese rappresentava come un sole. Semi apparentemente tutti uguali, come gli uomini, che la stessa propaganda vedeva come girasoli che seguivano la luce del sole. Ma anche l’unico alimento per i cinesi delle campagne, affamati dalle politiche del regime. Realizzati a mano da 1600 artigiani del villaggio rurale di Jingdezhen, e per questo ognuno diverso dall’altro. Dal peso di centocinquanta tonnellate questi semi di porcellana sono stati distesi come una tappeto alto circa dieci centimetri, per i mille metri quadrati della Turbine Hall della Tate Modern di Londra.

Come smemorare l’acrobatica Bang? Attraverso l’assemblaggio di 886 sgabelli artigianali di legno a tre gambe, posseduti in Cina per secoli da tutti gli strati sociali e tramandato di generazione in generazione, Ai Weiwei occupa l’intero spazio del Padiglione Germania (in realtà Francia), nella 55.Biennale di Venezia nel 2013. Una ramificazione di sgabelli che vuole ricordare le megalopoli, mentre il singolo sgabello, di nuovo, rappresenta l’individuo e la sua relazione col tutto. Una produzione, quella dei panchettini, che dopo la Rivoluzione Culturale del 1966, è crollata sotto il concetto di modernizzazione.

Non si può dimenticare nemmeno il Nido d’uccello. Realizzato nel 2008 per lo Stadio Olimpico di Pechino, nella convinzione che i Giochi Olimpici potessero segnare un momento di svolta della difesa dei diritti civili; e quando ha constatato che le sue speranze erano state deluse, ha invitato i suoi connazionali a boicottare i Giochi stessi.

Nonostante nella presentazione della mostra, si affermi che “Ai Weiwei ha scelto l’Italia e la meravigliosa cornice di Palazzo Te a Mantova per stupire ancora una volta il pubblico internazionale con la sua arte visionaria, spiazzante e pregna di rabbia e impegno civile che da anni, attraverso le sue opere e l’attivismo, lo vede impegnato in ambito sociale”, la mostra, curata da Sandro Orlandi Stagl e Mian Bu, con il supporto di Being 3 Gallery di Pechino, è deludente e lo stesso artista ne esce debole e poco incisivo.

Da alcuni visto come un gran furbone, Ai Weiwei è sicuramente un artista versatile, complesso, a volte contraddittorio. Nei suoi lavori, realizzati attraverso l’utilizzo di vari media, dalla scultura all’installazione, dal video alla fotografia, sistematicamente fonde la tradizione cinese con la forte denuncia del sistema socio-politico dell’attuale governo cinese. Accuse che gli hanno fatto guadagnare una posizione di dissidente, accompagnata da un rigido controllo da parte delle autorità, che non si risparmiano in distribuzione di pugni e schiaffi (tanto che nel 2009 finisce per un mese in ospedale a seguito di un pestaggio da parte della polizia durante una manifestazione), e che lo costringono in una invisibile prigionia (non dimentichiamo che nel 2010 gli sono stati assegnati gli arresti domiciliari e nel 2011 è stato di nuovo arrestato per “crimini finanziari”), da lui stesso resa pubblica attraverso il suo blog e suoi video e tweet lanciati in rete.

Comunque, riprendendo le fila del discorso, si diceva che la mostra mantovana è quanto di più deludente si possa immaginare di un’esposizione di un artista del calibro di Ai Weiwei. Il titolo, Il giardino incantato (che chiama in causa Il Giardino di Italo Calvino), e la presentazione molto ben fatta (“con la sua arte …pregna di rabbia e impegno civile… un evento unico, un viaggio attraverso 10 opere inedite costituite in tutto da 100 sculture da lui composte appositamente per questa occasione… arricchiscono l’esposizione due importanti artisti contemporanei cinesi Meng Huang e Li Zhanyang… le stanze dello storico edificio invase dalle creazioni concettuali del Maestro cinese”: così da comunicato stampa), annunciano chissà quali opere, predispongono al meglio e alzano di molto le aspettative. Fiducia che sembra non essere disattesa, anzi, si viene illusi di aver fatto la scelta giusta nell’affrontare il viaggio. La cornice è prestigiosa ed è sempre stimolante e interessante osservare come sia messa a confronto l’arte del passato, in questo caso quella rinascimentale e potente di Giulio Romano, con quella contemporanea.

Ad aprire la mostra, nella Sala del Sole e della Luna, chiusi in teche, ci sono i primi due lavori di Ai Weiwei, Pink Horse e Blu Horse, due cavalli che sembrano caduti a terra. I cavalli, per lungo tempo utilizzati come dono diplomatico cinese, qui realizzati in ceramica Tang Saicai, sono fedeli copie in scala di quelli del cosiddetto “esercito di terracotta” (l’insieme di statue tra le 6 e le 8mila – rappresentanti guerrieri in terracotta, posti a guardia della tomba del primo imperatore cinese Qin Shi Huang Di (260 a.C. – 210 a. C.), dipinti, però, con vernice industriale, lucida e accesa, a simboleggiare la rovina della cultura antica.

L’apice si tocca con la Sala dei Cavalli che è la più importante di tutto il Palazzo. È qui che si svolgevano le feste e i balli, tra cui quelli organizzati per la visita a Mantova dell’imperatore Carlo V nel 1530. I Gonzaga erano noti per il loro grande amore per i cavalli ed è per questo che Giulio Romano dedica a loro l’intera decorazione della sala, rappresentati a grandezza naturale. È qui che viene allestito l’esercito dei 91 cavallini dell’installazione Horses, della stessa fattura e postura di quelli della sala precedente, tutti perfettamente allineati, come l’esercito di terracotta, distinti solo per il colore della vernice. Ma i colpi sono sparati tutti e subito e quello che segue non riesce affatto a instaurare questo dialogo. L’ambientazione è forte e i lavori, alcuni deboli, altri di dimensioni troppo ridotte rispetto al contesto (come ad esempio Jesus Christ of Huangjueping di Li Zhanyang), senza una forte assonanza tra di loro (vedi Monster di Li Zhanyang e gli oli di Meng Huang), sono fagocitati dalle sale.

Un certo guizzo, più simile a un singulto, è nella Sala dei Giganti, dove i tre vecchi pilastri di pietra dipinti con vernice industriale, dell’installazione Stone Pillar, dovrebbero rappresentare lo scempio degli edifici storici abbattuti nel suo paese, per far posto all’architettura moderna. Ma anche, e soprattutto, rappresenta il suo studio nella città di Shanghai, demolito dalle autorità cinesi, sia per le affermazioni dell’artista contro il governo (“in Cina non c’è libertà di stampa e non c’è la possibilità di esprimere il proprio dissenso”), che per le accuse all’indomani del terremoto in Sichuan del 2008, per le numerose vittime (tra cui oltre cinquemila bambini morti sotto le macerie delle scuole) decedute nei “palazzi di Tofu” (così ribattezzati dall’artista, per indicare quegli edifici costruiti con cemento scadente). Studio abbattuto dalle stesse autorità che nel 2010 gli chiesero di costruire il suo atelier nel nuovo quartiere culturale della città. Però, i tre pilastri, sistemati all’angoletto, con quella triste cordicella di delimitazione, appaiono piuttosto come tre pezzi del gioco shanghai.

Unico momento di grande suggestione, dove nessuno tira dritto, è Flash, l’installazione realizzata appositamente da Li Zhanyang. Di fatto, è la sola opera approntata in una sala scevra da qualsiasi altro lavoro e affresco, si impone per le sue dimensioni e la suggestione stessa del lavoro: Ai Weiwei realisticamente riprodotto in scala (60%), chiuso in casa, seduto al computer, attualmente la sua unica finestra sul mondo. L’abitazione è avvolta da un cupo panorama, che simboleggia l’odierna Cina, illuminato da sporadici fulmini, ad indicare che gli intellettuali possono illuminare le menti e portare nuova luce.  Quindi, chi visita il palazzo, non si accorge neanche dei lavori oppure li vede come impiccio, come fuori luogo; chi al contrario, visita la mostra, rimane deluso non solo dell’allestimento ma anche dall’esiguità delle opere del Maestro e dalla scarsezza di quelle dei suoi amici.

 

Info mostra

  • Ai Weiwei – Il Giardino Incantato
  • fino al 6 giugno 2015
  • Palazzo Te, Viale Te 13 – 46100 Mantova
  • Orari: Lunedì 13-18 Martedì, Mercoledì, Giovedì, Sabato e Domenica 9-18 Venerdì 9-22 Chiusura della biglietteria un’ora prima della chiusura del Palazzo.
  • Ingresso: Intero € 12, Ridotto € 9
  • Tel.: +39 045 8622389 (Origini by EBLand Srl)
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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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