Sun & Sea. L’opera-performance da Venezia a Roma

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Sun & Sea, opera-performance. Foto di Daniela Trincia

Anche chi aveva già visto l’opera-performance Sun & Sea alla 58.Biennale di Venezia nel 2019, è tornato lo stesso al Teatro Argentina di Roma ad assistere alla sua rinnovata messa in scena; per rivedere un lavoro articolato, suggestivo, ricco di livelli interpretativi, e quindi per il piacere di immergersi di nuovo in quell’atmosfera evocativa che, ricordiamo, le valse il Leone d’Oro, ma anche per osservare come la stessa opera si possa calare in un contesto diverso e quale sia il risultato.

Di sicuro, le aspettative degli spettatori, “vecchi” e “nuovi”, non sono andate tradite, anzi, sono state ampiamente soddisfatte.

Sun & Sea, di Rugilé Barzdžiukaité, Vaiva Grainyté e Lina Lapelyté, curata da Lucia Pietroiusti, coinvolge un folto cast composto da oltre trenta figuranti, tra cantanti e performer, che si alternano nelle repliche fino al 4 luglio, nei quattro diversi orari previsti dal Teatro.

E la differente location determina anche sostanziali differenze, non solo esperienziali, ma anche e soprattutto di fruibilità e, in parte, anche di senso. Seppure, a Venezia, la riproduzione di una spiaggia all’interno di un impianto navale dismesso, in qualche modo poteva risultare in linea con l’ambiente balneare del lido della città lagunare, e provocare, comunque, un certo spiazzamento, a Roma, lo spaesamento è di sicuro totale.

Entrare in un teatro che, non dimentichiamolo, sorge sopra l’Aula Curia Pompeii dove fu assassinato Giulio Cesare e, dalla sua inaugurazione nel 1732, ha accolto le opere di Rossini, Cimarosa, Donizetti, Paganini, Verdi, con i tipici palchetti all’italiana, con profusione di stucchi e oro, e vedere nella platea, al posto delle note poltroncine rosse, una spiaggia bianca, abitata da persone in costume differenti per sesso, età, pelle, è una sensazione che va oltre lo spazziamento.

È come ritrovarsi nel paese delle meraviglie, con la sensazione di vedere balzare, da un palchetto, da un momento all’altro, l’ansioso bianconiglio. È entrare in un dentro, che è un fuori, attraverso uno stargate invisibile, in una dimensione temporale unica. È solo l’invito delle mascherine ad uscire, a riconsegnare la dimensione del tempo e a far ripartire le lancette dell’orologio.

Mentre a Venezia, la stessa fruizione non sottostava a nessun limite di tempo, di conseguenza, anche la stessa esecuzione canora aveva una dilatazione maggiore, a Roma il tutto si comprime in 60 minuti di spettacolo-performance.

A Venezia, i movimenti apparivano rallentati, in un’atmosfera pressoché statica, a Roma, invece, tutto appare tutto più velocizzato, con maggior movimento: ragazze che praticano yoga, un ragazzo che gioca col suo piccolo saltellante cagnolino, un bambino che costruisce la sua capanna con gli ombrelloni, la signora che manda messaggi col cellulare, le due gemelle con gli stessi vestiti e le stesse trecce.

Questa maggiore vitalità amplifica ancor di più lo straniamento, che si somma a quello suscitato nell’udire il canto (assoli e corali) di cui non è facile individuare la fonte.

Già dalla sua presentazione a Venezia, in molti sottolinearono la freschezza dell’opera-performance da parte del padiglione Lituano, ancor più perché slegato dalla propria tradizione storico-artistica nazionale: forse è proprio perché non solo ci aspettiamo che paesi che sono rientrati in una certa influenza politica, producano una determinata arte, ma anche perché pensiamo che tali paesi ancora non siano usciti fuori dal giogo delle precedenti produzioni; c’è, quindi, una sorta di ammirazione di questa nuova epifania, che, sicuramente (e per fortuna), riesce a svincolarsi da quei legami burocratici di un sistema autoreferenziale qual è quello attualmente vigente in molti paesi.

Il plus valore di quest’opera-performance risiede, a parer mio, nell’aver fuso, in un unico lavoro, svariati elementi e tematiche, quasi raggiungendo quella totalità della Gesamtkunstwerk, ma nel campo dell’arte.

Stando seduti nei palchetti, e osservare dall’alto, quel formicolio di gesti, canti, azioni, con quella luce omogenea e come se le fotografie di Massimo Vitali avessero acquistato tridimensionalità sotto i nostri occhi: accompagnate da canzoni che esprimono una quotidianità a tutti comune, attraversata dalle preoccupazioni, dalla noia, dall’esaurimento, dal banale, da semplici riflessioni anche sulla globalizzazione, che corre parallela a quella della Terra, e per questo una sorta di canto del cigno del Pianeta che, nell’indifferenza di molti, lentamente rischia la sua definitiva distruzione, perché “nessun climatologo aveva potuto prevedere uno scenario simile”.

  • Sun & Sea | opera-performance
  • durata: 60 minuti
  • dal 22 giugno al 4 luglio 2021
  • Teatro Argentina – largo di Torre Argentina 52 – Roma
  • orari: 16.00 – 17.30 – 19.00 – 20.30
  • biglietti: intero 15.00€ – ridotto 10.00€
  • info: teatrodiroma.net
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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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