Artificiosità naturale. Anche ad Artissima. Partendo dalla Storia dell’Arte dei grandi maestri

Ne è passata di acqua sotto i ponti da quando, nel 1866, lo scienziato tedesco Ernst Haeckel (1834-1919), nel suo libro Generelle Morphologie der Organismen, coniò la parola “ecologia”, per sottolineare l’indagine delle relazioni di un animale nel suo habitat, ma soprattutto le connessioni con gli animali e le piante con cui entrano in contatto nel rispettivo ambiente. Concetti che, ancor prima della definitiva elaborazione teorica, profusamente circolavano nei vari ambienti culturali e furono immediatamente accolti dai pittori romantici.

Senza trascurare John Constable (1776-1837), William Turner (1775-1851), Jean-Baptiste Camille Corot (1796-1875), è soprattutto il tedesco Caspar David Friederich (1774-1840), tra i maggiori rappresentati del paesaggio simbolico, a mettere in evidenza, con i suoi immensi paesaggi, queste relazioni tra il tutto, nella corretta economia di “gestione della casa”: l’uomo si inserisce in questo sistema di interazioni, nell’ascolto e nell’osservazione, dei cicli e delle concatenazioni.

Quindi la Natura, uno dei soggetti rappresentati alla stessa stregua degli altri e investita anch’essa di significati altri, è vista come smisurata e complessa, ma anche severa; da accogliente, può diventare inospitale. Perché la Physis (Natura), ciò che origina le cose caratterizzate da nascita, accrescimento, degenerazione e morte, è stata sempre presente nell’Arte.

Dicevamo che, da allora, ne è passata di acqua sotto i ponti. Perché da unico rifugio per riconquistare la primigenia ingenuità dell’uomo (L’incantatrice di Serpenti, Henri Rousseau, 1907). Da rappresentazione del mondo rurale con la sua dimensione eroica (La spigolatrice, Jean-François Millet, 1857). Dalle corrispondenze tra mondo oggettivo e mondo soggettivo (le favole di Jean de La Fontaine, Gustave Moreau, 1881-85). Da repertorio di segni (Paysage du Midi, André Derain, 1906). Da emblema della modernità (Quarto Stato, Giuseppe Pellizza da Volpedo, 1901). Dalla rappresentazione dell’oggettività dell’artista, delle sue emozioni che non devono essere nascoste e camuffate (Le ninfee di Claude Monet, 1918). Con un notevole salto temporale (per non tediare), si arriva agli anni Sessanta con la Earth Art prima, Land Art poi (con artisti quali Robert Smithson, Walter De Maria, Jan Dibbets, Richard Long). Attraverso le opere di questo movimento, gli artisti, non solo si pongono contro il tanto contestato sistema dell’arte, ma assumono un atteggiamento profondamente entropico e antiromantico, togliendo la Natura dal piedistallo dell’Arte.

Così la Natura, oggi, è potenzialmente avvertita come testimonianza degli interventi massicci dell’uomo, che comportano un suo scellerato consumo e degrado, o come qualcosa di artificioso, di posticcio, riprodotto per ricreare quell’illusione di verosimiglianza, di autenticità, ormai compromessa e lontana dalla quotidianità.

Si realizzano “Bosco Verticale” (Boeri Studio, Milano, 2014) e alberi telecomandati (Revolutions, Céleste Boursier-MougenotPadiglione Francia – Biennale Venezia, 2015), fiori sotto una campana di cristallo (Venal Muse, Envirico scupture, Mat Collishaw, 2012) e paesaggi di vetro con farfalle (The narrow gate, Jim Hodges, 2018).

Artificiosità naturale cui alcuni artisti consegnano toni di alto lirismo e poesia. È il caso del delicato lavoro Blossom tree di Hans op de Beeck (Turnhout – Belgio, 1969), presentato dalla Galleria Continua. Un albero, realizzato con acciaio, calcestruzzo, poliuterano, poliestere e resina, quasi completamente spoglio, il cui grigiore lo fa avvertire come un albero senza vita, sopravvissuto a chissà quale cataclisma. Ma, come per magia o come un miracolo della natura, piccoli e delicati fiori rosa ricoprono i disadorni rami. Piccoli fiori che evocano all’istante quelli dei ciliegi. Che rimandano alle splendide fioriture giapponesi. Un pezzo di sogno a portata di mano.

Perché Hans op de Beeck, pur rappresentando tragici scenari post moderni, spesso privi di umanità, li investe sempre di note enormemente familiari. Suggestioni malinconiche per descrivere quanto l’agire dell’uomo abbia influenzato e cambiato l’ambiente in cui vive. Come a voler dire: nonostante l’uomo e i danni che produce, la natura ri-trova sempre il suo equilibrio; malgrado l’essere umano, essa (gli) sopravvive. Ma anche a voler dire: in un mondo sempre più posticcio, anche la natura lo diventa e ci consegna l’illusione di naturalità. E, infine, anche un monito: attenzione, perché scelte e azioni sciagurate possono portare solamente verso l’inevitabile (auto)distruzione. Ma tutto espresso attraverso un’atmosfera serena e distesa: una finzione per parlare della realtà.

Un’artificiosità naturale osservata anche nelle Notice-Forest di Yuken Teruya (Okinawa – Giappone, 1973) presentate da Piero Atchugarry Gallery. Con l’inconfondibile pazienza zen, Teruya crea delle minuziosissime miniature di alberi, ricavate da shopper di carta. Solitamente buste griffate, ma anche dei principali negozi newyorchesi e dei colossi del fast food, quale McDonald.

Alberi attinti dalla memoria della sua terra d’origine per ricomporre il suo ricordo della natura incontaminata della sua isola. Quelle buste, ormai materiale di scarto, racchiudono in realtà un piccolo prezioso cuore, rappresentato dal minuscolo albero. Come se in quella busta fosse conservata l’anima primigenia del tronco che l’ha generata che, attraverso una pratica “scultorea” che ricorda da vicino quella michelangiolesca e di Giuseppe Penone, l’artista, togliendo il “superfluo”, la rintraccia e la riconsegna al mondo, nella sua estrema delicatezza.

Le opere citate sono state esposte e viste, per la maggior parte, nella scorsa edizione di Artissima, la 25., Fiera di arte contemporanea a Torino svoltasi dal 3 al 5 novembre 2018

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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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