Vivian Maier – Una fotografa ritrovata

Vivian Maier

Di solito riconoscibile in autoritratti prevalentemente realizzati catturando la propria immagine riflessa su superfici specchianti (se non ripresi come un’inquietante zona buia:  tra i più suggestivi quello in cui la sua ombra permette di focalizzare il ritratto di John Kennedy), è in alcune foto degli anni Cinquanta della Collection of Stephen Bulger Gallery[1] che finalmente vediamo Dorothee Viviane Therise Maier[2] per intero, senza la costante fotocamera al collo. In certe sorridente, libera dal suo permanente ruolo di bambinaia, su una spiaggia assolata, in costume, ritratta insieme a Emilie Haugmard, la governante francese tutrice non ufficiale di Vivian Maier quando si trasferì nella 64th Street di New York.

Entrata d’improvviso nell’olimpo dei grandi fotografi del secolo scorso, a fare di Vivian Maier un personaggio singolare è, senza dubbio, la sua insolita biografia nonché le curiose circostanze che l’hanno portata alla luce e fatta conoscere al mondo intero. Di lei sappiamo poco, perché è rimasta veramente fuori dalla società[3], come una figura indipendente che però, nel corso della sua vita, realizzò circa 160.000 immagini. Le poche notizie certe che si hanno concorrono a creare intorno a lei un’aura di mistero e di eccezionalità. E solo congetture possono colmare le numerose lacune biografiche della sua vita privata. Sappiamo (anche grazie all’immane sforzo parallelo di studiosi come Michael Strauss, Ann Marks e Pamela Bannos) che nacque a New York nel 1926 (da Charles Maier Sr, appartenente alla famiglia tedesca von Maier di Modor, e da Marie Jaussaud Maier, di origine francese, sposati nel 1919); che i suoi genitori ben presto si separarono (1927); che crebbe prima a St. Julien (dove pare abbia subito abusi da parte del compagno di una zia) poi a Beauregard in Francia; che nel 1938 rientrò con la madre a New York; che suo fratello Carl dapprima finì in riformatorio e in seguito ebbe  problemi di droga; che nei carteggi familiari non è mai menzionata; che fu intestataria di alcuni lasciti e che non riscosse mai gli assegni per il rimborso delle tasse del valore di migliaia di dollari; che per oltre quarant’anni lavorò come bambinaia e poi come badante, vivendo dapprima a New York e poi a Chicago; che compì numerosissimi viaggi per il mondo; che morì a 83 anni nel 2009 e le cui ceneri furono sparse in una foresta di Chicago. Si può pertanto dire che proprio dal 2009 inizia effettivamente la vita artistica di Vivian Maier. Perché è all’indomani della sua morte, in un tipico box americano andato all’asta, che John Maloof scoprì il suo lavoro[4].

Seppure la street photographer non abbia perfezionato la propria formazione scolastica, aveva una cultura ampia e profonda, guadagnata con un serrato programma da autodidatta attraverso una fitta frequentazione del teatro e del cinema, divorando giornali, riviste, libri d’arte, di fotografia e di cinema, di storia e di politica. Oltre a ciò, la convivenza e l’amicizia decennale con la cugina Jeanne J. Bertrand, che già a 21 anni si conquistava la prima pagina del Boston Globe nel 1902 come “la più eminente fotografa del Connecticut”, l’ha plausibilmente introdotta e trasmesso le nozioni fondamentali dell’arte della fotografia. Comunque, è sicuramente grazie all’impareggiabile e ottimistico sforzo di Maloof e Goldstein, convinti sin da subito della sua grandezza, se oggi conosciamo l’opera di Vivian Maier, i quali hanno curato lo sviluppo di numerose pellicole e la stampa di diversi fotogrammi caricandoli sul web, attività che ha permesso l’ampia diffusione delle sue immagini.

La brama culturale, confermata anche dalle pile di quotidiani che Maier custodiva e collezionava con estrema cura, portandole con sé nei diversi traslochi (dagli appartamenti dei vari datori di lavoro e dalle differenti città in cui visse e poi conservati in depositi presi in affitto, le cui pigioni negli ultimi anni della sua vita contribuirono certamente ad aggravare la sua situazione finanziaria definitivamente tracollata poco prima della sua morte), l’ha resa di certo aggiornata non solo delle nuove tendenze della straight photography, entro la quale si inserisce a pieno titolo, ma anche dei risultati dei vari gruppi di fotografi che dominavano il panorama statunitense di quegli anni, da Gruppo f/64 a coloro che gravitavano intorno a Camera Work. Tuttavia, è difficile negare che non conoscesse il lavoro di Paul Strand, Walker Evans, Berenice Abbott, Alfred Stieglits, solo per citare alcuni dei grandi fotografi i cui scatti erano esposti in gallerie e diffusi attraverso le maggiori testate giornalistiche dell’epoca. È all’indomani della morte della nonna Eugenie (1948) e al relativo lascito e la vendita della casa di famiglia che l’ha nuovamente condotta in Francia, che Vivian Maier acquista una Brownie, la sua prima macchina fotografica, e inizia a fotografare esclusivamente in bianco e nero i paesaggi della sua infanzia, i residenti, gli animali, il mondo intorno a lei. Rientrata negli Stati Uniti, sostituisce la sua Brownie con una Rolleiflex (“la macchina fotografica dei fotografi di successo”, come veniva pubblicizzata in quegli anni, con negativi di grandi dimensioni che permettevano di fermare un maggior numero di dettagli) perennemente appesa al collo (in seguito sostituita dalla più maneggevole 35mm) con la quale il suo attento sguardo si è posato su qualsiasi situazione incrociata lungo il suo cammino.

Con questa sua instancabile e metodica curiosità ha registrato (e trasmesso) la realtà e le trasformazioni economico-sociali di quegli anni, con una padronanza perfetta della tecnica. Come infatti si evince dai provini a contatto, i suoi scatti sono unici, secchi, puntuali, senza sbavature e con esemplari inquadrature. Paragonata da alcuni alla contemporanea Diane Arbus (1923-1971), a renderle distanti è proprio la modalità del loro lavoro. Mentre la Arbus, che era una fotografa per professione con pubblicazioni, mostre anche al MOMA e collaborazioni con diverse riviste, si interessava alle persone che in qualche modo uscivano fuori dai canoni della cosiddetta normalità (come i gemelli), con le quali instaurava anche dei rapporti di amicizia e che, nel corso della vita, fotografava più volte, la Maier, oltre a non aver mai svolto il lavoro di fotografa come professione né aver mostrato le sue immagini al pubblico, non interagiva mai con i suoi soggetti ed era più affascinata dall’unicità dell’attimo, “il momento perfetto” (Margaret Bourke-White).

Inoltre, nonostante la Maier avesse allestito una camera oscura, sono esigue le pellicole da lei sviluppate e le foto stampate; in più, non diede mai un titolo o una data alle sue immagini: quelli assegnati alle immagini in circolazione (in maggioranza designate con luogo e data sconosciuti) si basano sulle annotazioni sugli involucri o sulle custodie nelle quali conservava i suoi negativi, oppure assegnate per approssimazione, mentre i luoghi, a volte, sono stati riconosciuti per l’evidenza o dedotti dalla storia del suo lavoro. Dopo le tappe di Cagliari e di Milano, Vivian Maier – Una fotografa ritrovata, finalmente approda al Museo di Roma in Trastevere, fino al 18 giugno 2017. Promossa dall’Assessorato alla Crescita culturale, prodotta da diChroma Photography, realizzata da Fondazione Forma in collaborazione con Zètema Progetto Cultura, curata da Anne Morin e Alessandra Mauro, la mostra presenta circa 120 fotografie in bianco e nero realizzate tra gli anni Cinquanta e Sessanta insieme a una selezione di immagini a colori scattate negli anni Settanta, oltre ad alcuni filmati in super8, validi per scoprire come la fotografa si avvicinasse ai suoi soggetti, consente di ammirare la bravura della fotografa e farsi catturare anche dal fascino di un’epoca che fu, comprese le bizzarrie, la bellezza e la poesia, ma anche le diverse esistenze e realtà.

Ogni scatto, col suo equilibrio e il suo spessore, l’intrinseca potenza, racconta una storia, descrive un’atmosfera, delinea una vita, concede immenso spazio all’immaginazione dello spettatore di narrarsi il personale corso degli eventi fermati in ciascuna immagine. Nulla sembra sfuggire al suo sguardo e nulla acquista maggior importanza: tutto diventa soggetto protagonista dei suoi scatti. Dalla giovane donna molto à la page, con l’immancabile filo di perle al collo davanti alla Public Library, al giornalaio addormentato immerso nella sua edicola; dai bambini dei quartieri più poveri che giocano in strada, alla signora con lo sguardo arcigno con veletta e pelliccia; dalla coppia di innamorati sulla carrozza a Central Park, alla giovane ragazza delle pulizie intenta a pulire i vetri; dal senzatetto addormentato sui gradini di un negozio, alla gamba ingessata di una donna; al cane con un’eccentrica decorazione sulla testa, alla coppia di anziani addormentati l’una sulla spalla dell’altro su un traghetto; all’anziano probabilmente fermato per vagabondaggio, alla poltrona andata a fuoco; dal volto butterato e intenso di un cameriere, alla scarpa abbandonata sulla strada; agli uomini intenti a leggere il giornale sul treno, al commesso al telefono, a degli uomini intenti a cercare qualcosa in una discarica, alla televisione con l’immagine di Nixon, alla pila di fustini di detersivi (e qui il pensiero vola immediatamente a Warhol), ad Ava Gardner mentre firma autografi, a una gamba di uomo col calzino sceso, alla donna stesa al sole con i bigodini in testa. E così via.

Innumerevoli dettagli del brulicante e variegato quotidiano, che vorticosamente gira intorno a noi. Dettagli a cui pochi prestano attenzione rendendoli immortali. E Vivian Maier è una di questi. Senza alcun dubbio.

Note

Info mostra

  • Vivian Maier – Una fotografa ritrovata
  • Museo di Roma in Trastevere
  • piazza di Sant’Egidio 1/b – Roma
  • dal 17 marzo al 18 giugno 2017
  • orari: da martedì a domenica 10.00-20.00 (chiuso il lunedì)
  • ingresso: intero € 9,50 – ridotto € 8,50
  • info: 060608 – www.museodiromaintrastevere.it

Note

1.  Galleria di Toronto, Canada, che ha acquisito la stragrande maggioranza dei negativi dell’archivio di Jeffrey Goldstein Collection, che possedeva la seconda più grande collezione di negativi della fotografa di origini francesi e a cui si deve, insieme a John Maloof –il primo grande collezionista nonché realizzatore del docu-film Finding Vivian Maier, che ottenne anche la candidatura agli Oscar-  la stampa di numerosissime pellicole non sviluppate, impegnato in battaglie legali con il Tribunale di Sorveglianza della Cook County che rivendica il copyright sull’archivio che spetterebbero all’erede più prossimo presente negli Stati Uniti.

2.  Come da certificato di battesimo del 3 marzo 1926, alla presenza del padre Charles Maier Sr e del fratello Charles (Carl) Maier Jr.

3.  Probabilmente dovuto anche al fatto che, per svolgere il suo lavoro, era opportuno mantenere il silenzio sulla sua famiglia che contemplava un padre violento e dedito al gioco, una madre instabile e un fratello tossicodipendente e schizofrenico.

4.  Da allora si sono susseguiti mostre (la prima risale al 2010), studi, pubblicazioni, documentari e libri illustrati (come quello di Cinzia Ghigliano dal titolo “Lei – Vivian Maier” (Orecchio Acerbo, 2016), che ha ottenuto il Premio Andersen nel 2016 come Miglior Libro fatto ad Arte).

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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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