Da Duchamp a Cattelan. Arte contemporanea sul Palatino. Dittatura del curator

Denis Santachiara. Nuvola Rosa, tessuto dacron montato su servomeccanico, lampadine, 250 x 100 circa, 2008. Foto Alessandro Jemolo

Si parla tanto spesso di “dittatura del curatore”. A volte a ragion veduta, altre per semplice generalismo.

Ma è anche arrivato il momento di parlare di responsabilità, tanto del curatore quanto degli organizzatori di mostre. Perché, allo stato attuale delle cose, in cui innegabilmente la cultura sta toccando livelli da minimi storici, è il momento di rivedere (senza alcuna coniugazione al condizionale) tante, anche troppe, cattive abitudini. A partire dal turlupinare il pubblico.

Curatori e organizzatori di mostre, degni di tale titolo e seri professionisti, devono essere i primi a svolgere il loro lavoro in modo coscienzioso e rispettoso dei visitatori, che dedicano il proprio tempo e destinano il proprio denaro alla visione di una mostra. Deve finire la pratica di ingannarli col titolo acchiappallodole prima e con la scelta ed esposizione delle opere poi.

È il caso della mostra  Da Duchamp a Cattelan. Arte contemporanea sul Palatino (in corso, fino al 29 ottobre).

Andiamo per ordine.

Partiamo dal titolo. Vengono tirati in ballo Duchamp e Cattelan, due pezzi da novanta, che possiedono un peso enorme sulle conseguenze e svolte dell’arte contemporanea. Ruoli ribaditi dal titolo, che traccia una linea di continuità con quel “da … a …” tra i due artisti, a sottolineare la parabola artistica dal precursore al suo pigmalione (nella declinazione tradizionale del termine). Ruoli e peso culturale, sottolineati nella seconda parte del titolo, arte contemporanea. Che si conclude con la specificazione del luogo, sul Palatino.

E qui, la seconda fase di analisi. Il luogo. Universalmente conosciuto come sito archeologico di incommensurabile valore, ciclicamente curatori e organizzatori di mostre, sono abbagliati dalla portata storica del sito e, nei loro occhi, brillano stelline di gioia al pensiero di poter operare in cotanta bellezza. Ancor più stelline (e forse anche il dollarone di Paperone) quando si prospetta la possibilità di mettere in piedi una mostra che ponga in essere, in molti casi anche troppo abusato, il confronto/dialogo tra l’antico e il contemporaneo. Operazioni delicate, che solo se fatte con chirurgica precisione, vanno a buon fine, perché la potenza dell’antico, con tutto il suo valore storico-artistico, in un nano secondo si mangia in un sol boccone qualsiasi artista contemporaneo, se non sono fatti bene i calcoli.

Quindi, il titolo promette champagne e cotillon, leccornie da leccarsi i baffi: l’analisi di circa un secolo di arte tra le maestose rovine del Palatino, contraendo così quasi tremila anni di storia.

Questa la parte teorica. Ora passiamo alla pratica.

Chi vuole osservare solamente la mostra, non ha bigliettazione separata, quindi sborsa i suoi bei  12,00 euro, nei quali sono compresi, per l’appunto, sia il sito archeologico che l’esposizione temporanea (lo stesso ovviamente vale anche al contrario: il turista che vuole vedere solo il monumento, si vede il biglietto maggiorato per la mostra). Con tanto di stendardo che avvisa dell’esposizione, da nessuna parte, e dico nessuna parte, si evince che in realtà la mostra è costruita con opere provenienti dalla collezione di Tullio Leggeri. Sì, alla fine del comunicato stampa, quasi in calce, si accenna a suddetta cosa, ma il pubblico che si avvicina, quello che mentre visita il Palatino si imbatte anche nell’arte contemporanea, suppongo non legga il comunicato stampa. Tra l’altro, si deve anche sottolineare che il fine di simili mostre, periodicamente allestite in siffatta porzione di monumento, hanno proprio tale proposito: porre il pubblico, che percorre l’antico, di fronte a opere contemporanee, per farlo avvicinare ai nuovi linguaggi artistici.

Non solo i nomi acchiappallodole non aprono e chiudono la mostra (come ci si aspetterebbe, per quell’analisi della parabola artistica che il titolo promette di osservare), ma le rispettive opere sono allestite in una maniera che rasenta l’indecenza. La prima che si incontra del binomio, quasi a metà percorso, è quella di Maurizio Cattelan. Una didascalia seminascosta dichiara che è un lavoro ri-pensato, insieme al collezionista, per l’occasione. Posto in un cunicolo di passaggio buio, tra lo Stadio Domiziano e il Peristilio, Untitled è uno specchio posto a terra, che richiama Zerbino, un precedente lavoro di Cattelan realizzato proprio per Leggeri. Peccato che, oltre ad essere collocato in un cunicolo oscuro, tutto il camminamento dell’intero Palatino è in terra battuta, quindi lo specchio è completamente ricoperto di polvere, cui si aggiunge quella portata dai visitatori che ci passano sopra. In poche parole, praticamente invisibile. Mentre la seconda opera del binomio, quella del padre del ready made, è approntata all’interno del Peristilio della Domus Augustana, dietro un muro, seminascosta, visibile solo per chi la cerca. Una sorta di tavolo accoglie Rotoreliefs di Marcel Duchamp: vecchi giradischi che avrebbero dovuto emettere chissà quale melodia. Al condizionale perché, ovviamente, il lavoro, oltre ad essere completamente impolverato, non è funzionante.

Tralasciando le didascalie cadute a terra e, in alcuni casi, del tutto mancanti; tralasciando alcuni spaghi di color verde che tengono in piedi (e allo stesso momento svolgono la funzione di impedire il passaggio al terrazzamento) il Rinoceronte in legno di Pierluigi Calignano; tralasciando la polvere depositata sul pelo di Bear sculpture, l’orso defecatore di Paul McCarthy; tralasciando il misero allestimento dei quindici stendardi d’artista (Vanessa Beecroft, Wim Delvoye, Alberto Garutti sono alcuni degli autori) di 3 metri ciascuno d’altezza, appoggiati alla bene e meglio alle arcate Severiane; tralasciando il triste allestimento della Nuvola in tulle rosa di Denis Santachiara, bloccata all’interno di un arco dell’acquedotto Claudio, di cui si vede la didascalia solitaria nel praticello e si cerca in giro l’opera; tralasciando che ad un certo punto ci sono due sottomostre di fotografia “Mani” e “Ritratti” che, nell’economia della mostra, c’azzeccano come i cavoli a merenda; tralasciando il fatto che non esiste dall’ingresso una segnaletica che conduca alla mostra e indichi l’inizio della mostra…: insomma, tralasciando questi e tanti altri importanti dettagli, le opere che si impongono nello scenario per la loro forza e conquista dello spazio, quasi a fronteggiare l’antico in un confronto paritario, sono quelle monumentali di Mauro Staccioli (Diagonale Palatina, in ferro zincato di colore rosso pompeiano, alta 25 metri), Michelangelo Pistoletto (Luogo di raccoglimento multiconfessionale e laico, un tempio delle culture e delle religioni), Vedovamazzei (After Love, la pericolante villetta con tettoie sconnesse, finestre fuori posto e porte rialzate, estrapolata dal film di Buster Keaton One Week che metteva in crisi il modello della piccola borghesia) e Luca Vitone (Gli occhi di Segantini, che ripropone l’atelier del maestro divisionista in un contesto straniante).

Ciliegina sulla torta: alcune immagini esposte nelle sottomostre sono riproduzioni fotostatiche e, siccome lo spazio prescelto per le sottosezioni, durante il giorno è colpito dal sole, alcune fotografie sono state spostate e collocate all’interno delle arcate, lasciando, nelle pannellature che le ospitavano, degli spazi vuoti sopra le relative didascalie. Mentre, nelle arcate, sono state sistemate alla bene e meglio, affiancandole ad altre opere, creando anche degli esilaranti corto circuiti: Garibaldi, o meglio, Giuseppe, la scultura in terracotta di Sislej Xhafa adesso è veramente ferito, ma non a una gamba bensì a un piede, perché gli è caduto sopra il vetro dell’opera di  Barbara Kruger, Untitled (good), ricoverata dentro la stanzetta, tolta dalle pannellature esterne.

In definitiva, una mostra articolata non con un discorso costruito attraverso le opere, ma con delle opere prelevate in blocco ed esposte. E mi fermo qui.

Sono simili operazioni che, a mio avviso, non solo tradiscono l’intento di avvicinare il grande pubblico all’arte contemporanea, ma che, alla fine, la umiliano. Come, pure, coloro che, invece, si impegnano quotidianamente con serietà nel loro lavoro.

 

Info mostra

  • Da Duchamp a Cattelan. Arte contemporanea sul Palatino
  • A cura di. Alberto Fiz.
  • Palatino – via di San Gregorio 30, Roma
  • Periodo: 28 giugno – 29 ottobre 2017
  • Orari: 8.30 – 18.30 dal 1 al 28 ottobre; 8.30 – 16.30 29 ottobre
  • Biglietto: Intero € 12,00; ridotto € 7,50 comprensivo delle mostre in corso nell’area archeologica Foro Romano – Palatino – Colosseo. Lo stesso biglietto – valido 2 giorni – consente un solo ingresso al Colosseo, al Foro romano e al Palatino
  • Info: 06.0606; +39.06.39967700
  • Promosso da. Soprintendenza Speciale Archeologia, Belle Arti e Paesaggio di Roma, Associazione ALT – Arte Lavoro Territorio Arte Contemporanea – e Electa.
  • Catalogo. Electa.
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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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