Le affinità elettive #5. Australia-Israele-Svizzera 57.Biennale di Venezia

Tracey Moffatt, My Horizon. Australian Pavilion, Biennale Art 2017. Credit: John Gollings

Continuando con le affinità elettive che possono sussistere tra i Padiglioni dei Giardini della 57.Esposizione Internazionale di Venezia, un’unica retta mette in relazione quelli dell’Australia, d’Israele e della Svizzera, uniti dal filo dell’attualizzazione della storia e della tradizione dei rispettivi Paesi, attraverso un linguaggio inedito e aggiornato. Perché Tracey Moffatt per l’Australia, Gal Weinstein per Israele, Teresa Hubbard/Alexander Birchler e Carol Bove per la Svizzera, senza timore o riverenza, guardano al passato più prossimo, altrimenti dimenticato, e rintracciano le radici che affiorano nel presente, annullando così quella distanza temporale, fondendoli in un saldo e solido qui e ora.

Tracey Moffatt, My Horizon. Australian Pavilion, Biennale Art 2017. Credit: John Gollings

A parte Weinstein e Birchler, tutti gli altri artisti, vivendo negli Stati Uniti, sembrano aver posto quella giusta distanza con la loro terra d’origine, per cogliere e elaborare l’essenza della relativa cultura.

Proseguendo la linea impostata da diverse edizioni, il Padiglione Australia presenta un’artista che, nelle proprie opere, non trascura mai la cultura aborigena, in linea con la politica dello stesso Paese. È da notare, infatti, che proprio in questi giorni, in occasione anche delle celebrazioni dell’unità nazionale cui si affiancano quelle che ricordano il riconoscimento del diritto di cittadinanza agli aborigeni, la facciata della Sydney Opera House, per tutta l’estate, dopo il tramonto, diventa lo schermo per la proiezione di immagini Badu Gili (luce dell’acqua) che ripercorrono, in sette minuti, la storia del Paese, realizzate dagli artisti aborigeni Jenuarrie (alias Judith Warrie), Frances Belle Parker, Alick Tipoti, Lin Onus e Minnie Pwerle; mentre dal 20 agosto il Perth Institute of Contemporary Art ospita la mostra When the sky fell, con opere di artisti, provenienti da differenti comunità autoctone, che riflettono sui cambiamenti apportati dal referendum di 50 anni fa che portò al riconoscimento della cittadinanza.

Anziché il rimpianto per qualcosa di perso o di prezioso, il Padiglione espone come la cultura dei nativi sia uno dei tanti cromosomi che costruiscono il DNA australiano, presentati in modo non sfacciato né sfrontato, rintracciabili senza particolare peso.

Tracey Moffatt, nata a Brisbane nel 1960, dal 1997 vive negli Stati Uniti e, con un certo spirito salgariano, racconta storie sconosciute senza muoversi da casa invitando il visitatore a immergersi nelle suggestive atmosfere create dalla straordinaria installazione My Horizon.

Investita dell’Ordine dell’Australia (il più elevato titolo onorifico del Paese) nel 2016 “per il servizio distinto alle arti visive e performative come fotografa e regista, e come mentore, sostenitore e modello per gli artisti indigeni”, è conosciuta in Italia anche per le mostre da Galleria Nonostante Marras (Laudanum, 1996, del 2016) e da Spazio Oberdan (Tracey Moffatt: Between Dreams and Reality, del 2006) nonché per la sua presenza nelle collezioni del Castello di Rivoli (Heaven, 1987) e del MACRO di Roma (Guapa (Good Looking), 1995). Attraverso i suoi fotodrammi, la Moffatt insiste nell’approfondimento di temi spinosi e difficili: la “razza”, il genere, la sessualità, lo spaesamento e i viaggi della disperazione. Temi proposti anche nelle due serie fotografiche (Il corpo ricorda e Passage) e nei due video (Veglia e Fantasmi bianchi giunsero dal mare), lavori inediti, realizzati per la Biennale. Solo “lasciandosi cadere nelle sue fiction”, come ha suggerito alla curatrice del Padiglione, Natalie King, si possono compiere dei viaggi in luoghi sconosciuti ma, allo stesso tempo, in qualche modo noti, perché attingono a quell’immaginario collettivo contemporaneo che li rende familiari. Personaggi o architetture abbandonate e erose dal tempo, campeggiano nelle fotografie di grande formato (105,5×156 e 162×244 cm), allestite oltre l’usuale punto di vista, ad indicare che con lo sguardo si deve andare, per l’appunto, oltre il solito orizzonte, per riuscire a vedere al di là del proprio naso, in una trama narrativa in cui personale e storie comuni e collettive si intrecciano e sovrappongono. Con una marcata teatralità, che fonde effetti e composizione da colossal hollywoodiano, con una forte nota glam, i dodici scatti della serie a colori Passage non propongono mai soggetti frontali e centrali o primi piani, bensì degli individui che, come degli attori del celebre film Via col vento, in un porto non identificabile, si stagliano contro un orizzonte al tramonto, perché, in fondo, “domani è un altro giorno”, richiamando alla mente quei pericolosi e avventati viaggi per mare affrontati da molti. Mentre dettagli discreti concorrono a costruire il fotodramma, indicano e evidenziano il terreno sul quale si sono contesi, e tuttora si contendono, i diritti di un popolo: un cappello e un cappotto di una specifica foggia, un determinato vestito da lavoro, una scala di corde di una nave a vela, in modo misurato specificano e suggeriscono la storia del colonialismo e del razzismo che percorsero il Paese, con gli aborigeni violentemente strappati dalla loro “cultura selvaggia” per essere convertiti a una “cultura più civile e meno arretrata”.

(Piccola postilla, che rafforza l’idea di affinità elettive: inBiennale anche un altro lavoro straordinario porta il titolo Passage, il video in bianco e nero realizzato da Mohau Modisakeng, per il Padiglione del Sud Africa che, con una semplicità narrativa portata all’estremo, trasmette l’annullamento dell’identità africana e individuale causato dalla schiavitù).

A completare questo senso di viaggio, il video Veglia che, con un calibrato e meticoloso montaggio di scene con imbarcazioni alla deriva frammiste a volti sconvolti di grandi attori (bianchi) prelevati da famosi film, l’artista racconta e riflette sulla disperazione dei migranti e dei loro viaggi della disperazione. Temi riproposti anche nelle dieci foto in bianco e nero de Il corpo ricorda, nelle quali una cameriera con abito nero bordato di pizzo e grembiule bianco, ritorna in una casa abbandonata, esprimendo tutta la desolazione e la sofferenza che quel luogo suscita nella memoria della protagonista, in un tempo sospeso e nostalgico.

Rimasto sempre nella sua terra di origine, Gal Weinstein, l’artista più famoso di Israele, già nel 2002 aveva rappresentato il suo paese nella 25.Biennale di Sao Paulo. Nato a Ramat Gan nel 1970, Gal Weinstein ha trasformato il Padiglione Israele in una sorta di scrigno dentro il quale ha racchiuso dei tesori, nel tentativo di sottrarli al deterioramento dovuto al passare del tempo. Ma, come ben sappiamo, il tempo non si ferma e il suo trascorrere altera ogni cosa, dalla materia alla memoria. Uno scrigno che allegoricamente custodisce la storia del Paese, quella storia politica e sociale che dalla nascita come Stato, è stato un susseguirsi di avanzamenti (anche territoriali) e ritorsioni (anche violente). Quindi, un passato costellato di sogni, alcuni infranti, altri ancora inseguiti, in un presente che rincorre sempre il passato, ma che si proietta continuamente nel futuro. Artista caratterizzato dalla continua sperimentazione dei più disparati materiali e dall’utilizzo di media diversi, nell’immersiva installazione Sun stand still (per la cui realizzazione, in Israele, ha impiegato oltre sei mesi e un mese per allestirla nel Padiglione) ha restituito materialmente e letteralmente, il sogno della Valle di Ayalon. La “no man’s land” tra Israele e i Territori Occupati presa al deserto attraverso le nuove tecnologie applicate anche all’agricoltura per renderla produttiva, dove far convivere le diverse religioni presenti nel territorio (come attualmente accade a Neve Shalom, la comunità sorta sulle terre del monastero di Latrun, per volontà di Bruno Hassar dal 1977): così ha riprodotto le diverse culture praticate nella valle che, con i loro confini irregolari, creano un movimentato patchwork, di cui si ha la visione ottimale solo dall’alto, salendo al piano superiore. Terreno di una grande battaglia tra gli Israeliti e gli Amoriti, consegna quanto riportato in Giosuè 10:10-14, da cui mutua il titolo: “Allora Giosuè parlò a Yahweh […] e disse in presenza d’Israele: “Sole, fermati […]”. Formalmente “semplice”, l’installazione, concettualmente molto complessa, è un concentrato di sfumature di storia e religione stratificate che può essere esperita a diversi livelli interpretativi, tutti esatti e giusti. Sin dalla soglia, si è assaliti dal forte aroma del caffè che, lasciato all’aria, genera muffa. E la muffa lentamente conquista i muri delle pareti. Muffa che segna il deterioramento ma che, metaforicamente, traduce lo stantio di alcune posizioni o discorsi che regolarmente sono riproposti e trascurati e che, estensivamente, indica la superbia e la violenza del genere umano. Che può essere artefice anche del proprio annientamento e creatore degli strumenti di distruzione. Quella devastazione rappresentata dalla grossa nuvola (dal suggestivo titolo El Al –nome della principale compagnia aerea di Israele), allestita al primo piano realizzata con lana di acciaio, che immediatamente evoca una nube nucleare o quella formatasi dopo il lancio di un missile. Uno scrigno ma, quindi, anche un bunker che difende e conserva, la cui utilità è messa in discussione perché il tempo riesce ad avere anche su di esso il sopravvento, invadendolo e conquistandolo, attraverso i funghi, traducendo così quelle tensioni sociali che hanno un respiro universale.

Nelle opere del Padiglione Svizzera di Carol Bove e del duo Teresa Hubbard/Alexander Birchler, soprattutto artistiche (con una certa implicazione sociale) sono le tracce di Alberto Giacometti, che si identificano nel presente. Riflettendo sull’assenza, quella dell’artista svizzero che si è sempre rifiutato di rappresentare il suo Paese alla Biennale, partecipando invece al Padiglione Internazionale (1962) e addirittura a quello francese (1956), le artiste coinvolte esaminano il senso del concetto stesso di identità. La prima, nata a Ginevra nel 1971 (ma da anni vive tra gli Stati Uniti e il Canada), negli assemblaggi scultorei esposti, traduce l’“assenza” di Giacometti prendendo spunto dalle Femmes de Venise, innescando varie connessioni linguistiche realizzando Les Pléiades, un gruppo di sette sculture allestite nel cortile. Un padre che non deve essere ucciso né osteggiato, bensì accolto, fatto proprio, per liberarsene e raggiungere quel giusto equilibrio e quell’indipendenza necessari. Mentre del duo formatosi nel 1990, è Alexander Birchler ad essere autoctono (Baden, 1962) anche se ha diversi legami professionali con il Texas, perché Teresa Hubbard è nata a Dublino e ha vissuto negli Stati Uniti, per poi trasferirsi in Svizzera. Nella doppia installazione filmica sincronizzata, dal titolo Flora, la coppia mette in scena una commovente ri-costruzione dell’assenza di Giacometti nella vita di Flora Mayo prima e in quella di un figlio sconosciuto poi. L’installazione, attraverso una descrizione puntuale e un’interpretazione raffinata, racconta, con diversi picchi poetici e emotivi, queste due storie e crea un ponte temporale (1926 /2016), geografico (Parigi/Los Angeles) e un dialogo impossibile (madre/figlio). Da un lato, è proiettata in bianco e nero, la ricostruzione della storia di Flora Mayo che, studentessa e scultrice negli anni 1920 a Parigi, ebbe una relazione affettiva con Giacometti di non lunga durata, dalla quale nacque un figlio, cui tenne sempre nascosta la paternità. Diseredata dalla famiglia, rientrata negli Stati Uniti, condusse una vita di forti ristrettezze economiche nel continuo tentativo di crescere il figlio senza privazioni. Un figlio, che vive a Los Angeles, la cui storia a colori è proiettata nell’altro lato, e che solo in età avanzata ha conosciuto la sua storia familiare, con tutto il dolore per la scoperta delle sofferenze patite dalla madre.

Una modalità, quella presentata dagli artisti dei tre Padiglioni sopra raccontati, raffinata, intelligente e distante da quella, furbescamente lugubre, del nostro Cuoghi nel Padiglione Italia.

  • 57.Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia
  • Affinità elettive #5 | Australia-Israele-Svizzera
  • Venezia – Giardini
  • Periodo: 13 maggio – 26 novembre 2017
  • Orario: 10.00 – 18.00 / 10.00 – 20.00 sede Arsenale – venerdì e sabato fino al 30 settembre; chiuso il lunedì
  • Ingresso: 48h Intero € 30; Intero Regular € 25 (valido per un solo ingresso per ciascuna sede utilizzabile anche in giorni non consecutivi); Permanent Pass € 80
  • Info: tel. 041 5218 828 – fax 041 5218 732 (lun > ven 10-13.30 e 14.30-17:30; sab 10-13.30) www.labiennale.org
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Daniela Trincia nasce e vive a Roma. Dopo gli studi in storia dell’arte medievale si lascia conquistare dall’arte contemporanea. Cura mostre e collabora con alcune gallerie d’arte. Scrive, online e offline, su delle riviste di arte contemporanea e, dal 2011, collabora con "art a part of cult(ure)". Ama raccontare le periferie romane in bianco e nero, preferibilmente in 35mm.

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