Minari. L’incontro tra oriente e occidente in un film coreano americano.

immagine per il film Minari, Lee Isaac Chung

Dopo la sorpresa dei premi Oscar assegnati nel 2020 al film coreano Parasite di Bong Joon-ho (miglior film, migliore regia, migliore sceneggiatura originale, miglior film in lingua straniera), eccezione assoluta nel panorama dei premi americani, quest’anno era molto atteso il film Minari, girato in inglese da un coreano naturalizzato, Lee Isaac Chung, che aveva già conquistato il Golden Globe come miglior film straniero ed il Premio speciale della giuria al Sundance Festival.

Con un seguito di polemiche e generalizzazioni soprattutto sulla sua equivoca nazionalità e sull’apprezzamento attuale di spettatori e critica dei film orientali tout court.

Finora tra tutti i registi orientali (cinesi, giapponesi, taiwanesi, hongkonghesi, coreani, ecc.) oltre quelli da cineforum o da blockbusters, solo alcuni come Ang Lee e John Woo, vivendo in America ed usando le idee, il lessico e la tecnologia inglese sono stati quelli che hanno avuto vero successo.

Emblematico quindi diventa proprio il film Minari, che malgrado i premi ricevuti ed una impostazione da film americano, sta dimostrando le difficoltà degli occidentali a digerire film orientali. In Usa ha avuto una distribuzione limitata, in Italia va meglio perché si può vedere anche in streaming.

Ma il passaparola è che non solo non dice qualcosa di nuovo sulla conquista dei fertili spazi rurali americani, di cui era pieno il cinema della frontiera e sul favoloso posto al sole che la stessa Costituzione americana propaganda come american dream, quasi sempre presente nei film hollywoodiani, ma mostra i difetti innati del cinema orientale: la lentezza, la interiorizzazione e la ripetuta quotidianità fatta di situazioni, atti, pensieri.

Cosa non proprio vera perché anche Minari invece ha un suo sviluppo e tante contrapposizioni di idee, che sono il sale di una buona sceneggiatura. Quando del film si sente dire che è lento, noioso e non succede niente, vuol dire che ormai se un intreccio non si complica e non intriga il nostro cervello (anche con azioni cervellotiche) non vale niente, e se tutti non sono in corsa e non succedono tante cose non vale il tempo ‘perduto’.

Invece in un film lento, semplice, con luoghi comuni sulla vita familiare rurale di una famiglia orientale nel profondo Arkansas (che deve il suo nome alla tribù nativa degli Algonchini), con scene agresti e metereologiche, con musiche elettroniche da favola disneyana, ho trovato, più che in altri film di cosiddetta denuncia o di contenuto civile, le contrapposizioni tra concetti fondamentali: tra aspirazione personale ad un futuro capitalista ed amore solidale familiare, tra desiderio di vita agreste e vita di città, tra famiglia moderna e famiglia tradizionale, incomprensioni, screzi ed affetti profondi tra uomo e donna, tra vecchi e bambini, relazioni tra religioni precostituite (buddismo e cristianesimo) e cultura animista e superstiziosa.

Senza un finto messaggio morale, ma con il solo scopo di stemperare le insignificanti continue tensioni che viviamo e che nascono da età, sesso, razze, ideologie, tradizioni, filosofie, leggi, religioni e comportamenti umani.

Due rapporti difficili. Tra i coniugi coreani Yi, il marito Jacob preso dal sogno americano di riuscire a coltivare ortaggi da vendere alla comunità coreana e finalmente mettere su una fattoria, la moglie Monica ansiosa di vivere in una vera casa di città, lavorare e poter fare spesa nelle strade piene di folla e di shopping. Tra una nonna ed un bambino. Una nonna non tradizionale come vorrebbe il nipote, che non sa fare le torte, è golosa, gioca a carte, dice parolacce e vede in televisione sport violenti. Ma è anche una nonna che va a spasso nei campi e nelle foreste fino a scoprire vicino ad un torrente un luogo incantato, un posto dell’anima orientale per seminare i semi di minari (erbe aromatiche piccanti coreane) che lì cresceranno rigogliosi. Una nonna che si farà poi amare per la sua dolcezza arcaica.

Minari è un film elegiaco con una fotografia essenziale che scava con l’aratro nel terreno fertile, che sfiora le erbe fluttuanti della prateria, che entra dentro i boschi eterni, che disegna aree di torrenti dove i serpenti dormono al sole, che segue le stagioni e la crescita degli ortaggi da vendere.

Minari è un film anche mistico, con quel coprotagonista operaio contadino americano, interpretato dal bravissimo vecchio attore Will Patton, che conosce e comunica con le piante ed esercita un suo potere esoterico di ricerca delle energie positive compiendo rituali complessi, chiamando o scacciando fantasmi dalla terra e dalle abitazioni.

La domenica poi prende una croce sulle spalle e la trasporta per miglia nella natura, frutto di una cerimonia di espiazione, fuori dalle religioni costituite ma profondamente cristiana.

Al di là del premio Oscar per la migliore attrice non protagonista assegnato alla nonna Yoon Yeo-jeong, che è attrice di successo di lungo corso nel suo paese, da apprezzare i continui duetti performativi, di alta scuola, dei due genitori Yi, sia nei rudi contrasti che nelle sfumate parti sentimentali e la misurata recitazione del piccolo protagonista, Alan. S. Kim, che non ha nulla da invidiare agli americani Henry Thomas e Drew Barrymore (E.T.), Haley Joel Osment (Il sesto senso), Macaulay Culkin (Mamma ho perso l’aereo).

Il regista coreano naturalizzato Lee Isaac Chung, connazionale del protagonista Steven Yeung, attore affermato nelle serie televisive, che è riuscito a trovare produttori americani famosi alla ricerca del successo come Brad Pitt, ha raccontato la storia della sua famiglia immigrata dalla Corea e di lui bambino negli anni ’80, cercando una strada nuova rispetto ai suoi predecessori, ormai convertiti allo studio system standard americano, mantenendo in un film, a suo modo minimale ed elegiaco, una sceneggiatura composita con un fondo di filosofia, modi di vita e tradizioni orientali misti ad una visione ricca di stilemi americani.

Se una volta quindi vedere un film orientale serviva per allargare le conoscenze su un mondo lontano ed anche nuovo, oggi con la globalizzazione e la contaminazione di civiltà, l’uso di forme e contenuti diversissimi (orientale-occidentale) si mescolano in un melting pot che può sembrare ad un primo giudizio molto originale, ma in realtà non è altro che una completa omologazione universale. 

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Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.

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