Letterature Festival 2019. Il futuro dei classici per Chris Offutt, Elaine Castillo e Carlo Lucarelli.

Elaine Castillo, foto di Piero Bonacci

Per molti autori moderni, tra cui anche quelli dei questa serata del Festival, la fortuna di scrittori è nata dal fatto di avere avuto a disposizione nella loro infanzia e giovinezza una certa quantità di libri (classici), che i loro antenati in qualche maniera avevano accumulato e che avevano messo a disposizione di figli, di nipoti e pronipoti con grande generosità. Non erano certo soldi, argenterie, mobili, armi, bestiame, terreni o quant’altro di valore venale, ma sicuramente beni di grande valore intellettuale.

Chris Offutt, americano del Kentucky (Country Dark – Minimum fax 2018) dopo la introduzione musicale della Piccola Orchestra di Torpignattara diretta da Pino Pecorelli, con il suo inedito, ha ricordato la perdita di tutti i beni della sua famiglia nel periodo della grande Depressione, meno le centinaia di libri che non si potevano rivendere e che lui aveva sempre continuato a leggere con attenzione e determinazione (aspettando e sperando) fino ad esaurire il canone della letteratura occidentale, cercando di capire il contesto storico ed i movimenti letterari europei e americani, ma senza trovare mai grandi esempi di libri ambientati in campagna, sulla gente di campagna come lui.

Offutt ha raccontato la sua vita in un piccolo paese delle catene degli Appalachi dal quale era fuggito a piedi per arrivare con il passaggio di un camion alla prima città importante. Difficile, complicata, rumorosa, e piena di gente cui non interessava niente di lui, un ragazzo di campagna ignaro dei processi di interazione sociale, che non sapeva far altro che lavorare. Sconfitto – ha continuato – era ritornato a casa senza essere coperto di onore e di gloria come aveva sempre letto nei suoi libri ed era ormai cambiato, mentre il mondo della montagna era rimasto lo stesso.

Ritornò in città e si iscrisse alla specialistica all’Università. Voleva scrivere sulla storia della sua terra ma non aveva ancora trovato esempi calzanti. Né autori come Faulkner ed ‘O Connor troppo presi dalle problematiche del Sud, né Steinbeck e London che parlavano delle classi operaie in California. Uno degli amici poeti, intelligenti e capaci di trovare cose imprevedibili, Juan Felipe Herrera, figlio di contadini emigrati, disadattato come lui – ha ricordato – gli consigliò un libro di poesie ambientate nelle Langhe, un classico della letteratura italiana. E lui lo lesse perché era cresciuto in un altopiano del Kentucky, il cui nome Piedmont derivava proprio dall’italiano Piemonte. Il libro era “Lavorare stanca” di Cesare Pavese ed allora – ha detto Offutt – cominciò a scrivere il suo primo libro “Nelle terre di nessuno” (raccolta di esordio del 1992 pubblicato da Minimum fax nel 2017).

“Pavese ha avuto una profonda influenza sulla mia scrittura – ha raccontato Offutt – esplorava una solitudine tragica che conoscevo bene, la sensazione di essere assolutamente soli al mondo con le proprie percezioni. A volte la lingua è aspra, grezza, piena di desiderio, sensuale, paternità, lavoro, morte, e amore del paesaggio. Un mondo a me familiare in un modo di pensare che riconoscevo. A 40 anni tornai per l’ultima volta sui miei amati Appalachi. Stavolta ero deciso a restare”. “Stavo seguendo il consiglio di Pavese – ha terminato Offutt con un brano del grande autore italiano: La vita va vissuta lontano dal paese; si profitta e si gode. E poi quando si torna come me a quarant’anni si trova tutto nuovo. Le Langhe non si perdono”.

Elaine Castillo, californiana di origine filippina (L’America non è casa – Solferino 2019) ha letto l’inedito “Il futuro è decoloniale: sullo ieri, l’oggi e il domani dei classici”.

La sua premessa è stata questa: “I miti ed i racconti fondativi sono confezionati e si possono riconfezionare; non ci arrivano in uno stato di neutralità, come siamo portati a credere e non rimangono in stato di neutralità”. Introducendo con questo la sua idea di scrittura decoloniale, cioè comprendere che ci sono saperi che mai vengono considerati e non registrati come tali e senza questi non ci può essere una completa comprensione dei classici.

E dopo questa premessa ha cominciato a parlare dello ieri dei classici. L’Odissea, in particolare il brano sicuramente coloniale, in cui Ulisse racconta ai Feaci il popolo più civilizzato dell’epoca di quei mostri che erano i Ciclopi, ingiusti e violenti, che non piantano nulla, non arano, non hanno assemblee, non leggi e vivono in grotte profonde, selvaggi. Poi Ulisse racconta che mentre Polifemo è fuori a pascolare le greggi, con i suoi compagni penetra nella caverna e trova agnelli chiusi nei recinti e formaggi ad asciugare e catini di siero. Il selvaggio Polifemo torna e si mette alla sua opera di casaro, munge le greggi, caglia metà del latte, mette da parte il siero, accudendo tutti i suoi compiti quotidiani, mentre Ulisse ed i suoi si mangiano il formaggio (la feta) fatta dal mostro. Ulisse rivelatosi chiede ospitalità ed i doni riservati agli ospiti, ma poi accecherà il ciclope, chiamandosi con l’inganno Nessuno, rimanendo impunito senza poter essere riconosciuto. Ma la vita distrutta in ogni senso, anche morale, è in fondo quella di un selvaggio!

La stessa narrazione si ripete dopo secoli con i diari di Cristoforo Colombo che considerando pari alle bestie gli abitanti pacifici e amichevoli, ma ignari di un’isola scoperta, pensa di portarne alcuni con sé per mostrarli ai sovrani spagnoli affinché imparino a parlare la loro lingua e diventino Cristiani. Nel 1859 anche un altro esploratore Samuel Butler (traduttore in inglese di Omero) emigrò in Nuova Zelanda con gli stessi intenti. Ecco perché – ha concluso Elaine Castillo – il futuro deve essere decoloniale, cioè prima ci si deve rendere conto di tutto quello non detto della narrativa dei classici. Occorre allargare l’estensione delle storie di noi stessi oggi, non solo alla parte più forte, autorevole e intelligente ma anche a quella più specifica, più precaria, più dipendente. Solo allora il classico futuro sarà neutro e completo.

Carlo Lucarelli, autore di gialli italiani (ispettore Coliandro, commissario De Luca) presentatore di programmi di mistero e di delitti italiani in TV) ha mostrato il suo umorismo con una serie di declinazioni del concetto di classico.

Il suo inedito. “Prova scritta: il candidato svolga in un elaborato contenuto tra le 14.000 e le 20.000 battute il seguente tema: Il domani dei classici, ovvero, quando un libro diventa un classico”. Lucarelli ha iniziato raccontando che all’età di sette anni una bambina del suo cortile classificava qualsiasi cosa fatta e rifatta nei giochi e nella vita: un classico, cioè sempre quello. Passando alle mode degli anni ’70, certi vestiti od atteggiamenti venivano considerati come classici moderni, finché il più bravo della classe disse che il classico moderno non esisteva il classico era solo vecchio.

Chiaramente nel Liceo Classico il classico era quello più studiato, da Dante al Manzoni imparati a memoria. Poi negli anni ’80 quando finalmente la letteratura d’evasione come il giallo (e ne scriveva già anche lui) era diventata popolare il classico era qualsiasi libro letto da tanta gente. Con il successo del noir – ha continuato Lucarelli – se ne cercarono i precursori. Dalla storia biblica di Caino e Abele ad Edipo a Colono di Sofocle, Candido di Voltaire, Delitto e castigo di Dostoevskij, Quel pasticciaccio brutto di Via Merulana di Carlo Emilio Gadda, Il nome della rosa di Umberto Eco. Alla libreria Il giallo di Milano in una lista di libri che lo avevano ispirato Lucarelli ha detto che aveva messo un classico importante, pesante, l’Ulisse di James Joyce (provocazione). Allora in conclusione, sommando tutte le definizioni trovate – ha chiuso Lucarelli – cos’è un classico: Sempre quello, uguale a sé stesso. Antico e vecchio. Studiatissimo e molto letto. Importante. E molto pesante.

La serata di Massenzio è terminata con il premio Vittorio Bodini alle traduzioni, assegnato al miglior esordiente Andrea Romanzi per L’amuleto del norvegese Gert Nygardshaug, autore che si ispira a Camilleri ed il premio alla carriera a Yasmina Melauoah per le traduzioni di Albert Camus, Mathias Enard, Daniel Pennac.

+ ARTICOLI

Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.