La terra della discordia: As bestas, di Rodrigo Sorogoyen

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As Bestas. Regia di Rodrigo Sorogoyen

As bestas (La terra della discordia) di Rodrigo Sorogoyen, con una sceneggiatura molto originale di Isabel Pena, ha saputo descrivere realtà scomode che si stanno rivelando in questo momento di cambiamenti epocali.

Tutti sanno che cosa vuol dire globalizzazione, sviluppo tecnologico, interdipendenza di economie, manovre finanziarie, surriscaldamento, desertificazione, carenza di energie o materie prime, blocchi contrapposti, Unione Europea, esodi, migrazioni, etc., ma ancora non si è presa coscienza sulle ricadute di questi mutamenti universali sui microcosmi e sulle psicologie umane (nazioni, regioni, piccoli paesi, borghi, tradizioni, esistenze).

E si parla anche tanto del nazionalismo, del populismo etnico, delle ideologie di supremazia tra stati ed individui, tra razze, tra ceti sociali, tra generazioni, con la polarizzazione delle opinioni, il desiderio di omogeneità (frutto spesso di media sempre più pervasivi).

Sembra che sappiamo tutto sulle macrotrasformazioni della società ma non sappiamo niente delle piccole trasformazioni di mentalità degli abitanti di un microcosmo nascosto chissà dove, ovunque, quale ogni piccolo borgo ormai semideserto.

As bestas, attraverso un racconto minimale di agricoltori/allevatori di un luogo qualunque nella provincia di Ourense, sulle propaggini dei piccoli rilievi della Galizia (nord della Spagna), tocca argomenti che esemplificano un po’ tutti i luoghi simili nel mondo. Ma prima ci si deve chiedere quanta è già e come diventerà l’urbanizzazione e la conseguente gentrificazione delle città.

Che cosa porta la disponibilità di un surplus alimentare nei paesi più sviluppati, che arriva da tutto il mondo in maniera incontrollabile, e come reagiscono gli agricoltori locali? Cosa porta agli stessi ed a tutti i consumatori di beni e servizi la nuova sedentarizzazione, visto che ormai qualsiasi specie di merce arriva in ogni casa con la logistica?

Una premessa necessaria per capire questo film spagnolo, ad un anno dalla stessa analisi fatta dal film Alcàrras di Carla Simon, vincitore dell’Orso d’oro a Berlino nel 2022: la terra è dura e duro è lavorarci tutto l’anno, sotto le intemperie, per produrre sempre nuovi frutti e riuscire, a fatica, a venderli bene. Con la soddisfazione di vivere all’aperto, di sentire nella natura i cambi di stagione di riposare bene e mangiare sano. Ma soprattutto innamorarsi della terra, delle acque, degli alberi, dei panorami, degli animali domestici o selvatici.

E questo è quello che succede ad Antoine (Denis Ménochet), un professore francese che ha deciso con la moglie Olga (Marina Foïs) di trasferirsi in un paesino della Galizia, semiabbandonato dai suoi abitanti, ormai inurbati.

Siamo, ricordiamolo bene, in una Europa da tempo senza confini, Parlamento eletto da tutti e moneta unica.

Antoine coltiva ortaggi con un metodo organico o biologico e quando va al mercato in città viene apprezzato per il buon prodotto che porta. Ama la sua terra, il suo lavoro, i boschi dove va a passeggiare, il laghetto dove va a fare il bagno e soprattutto ama sua moglie, che con tenerezza lo supporta in tutto.

Hanno una figlia in Francia, Marie (Marie Colomb), che conduce una vita di città, ha un figlio, un nuovo compagno, è moderna ma non cattiva ed a volte, oltre telefonare, viene a trovarli.

Antoine è un essere pensante e la sua utopia è mantenere e salvare la natura e restaurare qualche casa abbandonata per far ritornare qualche abitante o per affittarla come Bed & Breakfast.

Frequenta l’unico bar del luogo per bere una birra o giocare a domino, ma viene chiamato dai paesani, in senso dispregiativo ‘il francesino’ e malgrado i suoi tentativi di dialogo, viene umiliato, frutto di una mentalità ristretta che si offende in un razzismo al contrario, perché lo straniero pensa ed i locali vorrebbero rimanere nella loro ignoranza ed ignavia. Soprattutto due fratelli allevatori Xan (Louis Zahera) e Lorenzo (Diego Anido), vicini alla sua terra mostrano per lui tutto il loro disprezzo.

Come nel film Alcàrras sono in arrivo i potenti gruppi dell’energia per comprare tutta la zona ed impiantare pale eoliche, ma Antoine, per amore della sua terra e della sua libertà (che cosa ne farebbe dei soldi?) presto si trova ad essere l’unico contrario.

Per gli altri, tra cui i fratelli a lui vicini, che vedono una maniera facile di diventare ricchi e lasciare un lavoro che puzza, scatta quella xenofobia compressa ma latente di un ambiente chiuso, ignorante ed inconsciamente violento.

I tranquilli panorami e la serena vita di Antoine si ammantano, cadenzati da una musica percussiva, di sempre più elevati livelli di ansietà e paure, mentre l’animosità e l’animalità di un mondo chiuso e rancoroso si trasforma progressivamente in una minaccia, odio e ferocia pronti ad esplodere.

L’operazione di Soroyen diventa a questo punto non solo la visione del contrasto tra città e campagna (urbano civilizzato e rurale selvaggio) ma anche una riflessione politico sociale.

Quale sta diventando il grado di desertificazione dei piccoli paesi di campagna e montagna con il miraggio dei soldi facili europei per la transizione ecologica in atto?

La politica del tutto subito ed a buon mercato di ogni tipo di industria, dall’alimentare alla tecnologica porta come conseguenza la fine dell’agricoltura, dell’artigianato e del commercio minuto, con uno spostamento delle persone, sempre più incompetenti in ogni settore, e sempre più condizionate e ricattabili.

L’ultima parte del film, dove tutte le ideologie e considerazioni sull’incerto ed inconsapevole tempo presente cedono il passo al coraggio indomabile di una sola donna nel portare avanti gli ideali del marito (scomparso), è quella cinematograficamente più riuscita.

Senza più la tesa atmosfera thriller, un compassionevole profondo intimismo ed una fredda determinazione seguono la vita quotidiana della protagonista Olga, che culmina con una eccezionale scena madre con la figlia che vorrebbe portarla, inutilmente, con sé in Francia.

Una recitazione superba di Marina Fois, prima dimessa, poi ferita ed infine dominante. Bravi anche il sognatore Antoine ed i cattivi fratelli Xan e Lorenzo. Luminosa la fotografia.

Il titolo As bestas viene dalla tradizione locale (La rapa das Bestas o taglio della criniera dei cavalli) e vede due o tre uomini, in un recinto chiuso a mani nude, che catturano un cavallo e lo immobilizzano per domarlo od in senso metaforico per mostrare quella presunta superiorità dell’uomo sulla Natura. E questa lunga scena di lotta faticosa e silenziosa è anche l’illuminante incipit del film

 

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Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.

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