Festa del Cinema di Roma #4. Oltre la festa, si tratterà di buoni film?

Foto: Chiara Pasqualini
Foto: Chiara Pasqualini

Dodici anni fa nasceva il Festival Internazionale del Film di Roma sotto i migliori auspici. Oggi attraverso tutte le derive populiste avvenute in questi anni si chiama Festa del Cinema di Roma. E quello che la Presidente della Fondazione Cinema per Roma Piera De Tassis chiama analfabetismo iconico, determinato cioè dall’invasione quotidiana travolgente di immagini, vorrebbe essere curato facendo sistema con le molte entità cinematografiche (Centro Sperimentale, Luce Cinecittà, Produttori e distributori, ecc.), artistiche (GNAM, Maxxi, ecc.) e culturali (Biblioteche, Esposizioni ecc.).
Forse non è proprio questa la strada per il futuro del cinema. Sappiamo quanto funzioni la tendenza in voga delle sinergie tra le forze in campo, che fa solo pendant con l’altra tendenza globalizzazione delle risorse di cui si sono già visti i risultati. Le cose senza confini vanno poi come vanno in questo tritatutto culturale. Tutto ciò per dire che l’Assessore alla Crescita culturale del Comune di Roma, Luca Bergamo ha condotto all’Auditorium una conversazione sul tema Creatività e crescita culturale in Europa, quale ruolo per il servizio pubblico? Quando si sa bene che i servizi pubblici ed ogni altra industria culturale non alimentano certo la vivacità e creatività culturale.
Tutt’altro, la appiattiscono al più basso strumentale livello mediatico.

Torniamo alla Festa del Cinema di Roma che funziona tantissimo per quel che riguarda il red carpet, sempre affollato, per trasmettere in tempo reale sui social le immagini dei Vip e la Sezione Incontri Ravvicinati, sempre e solo per far sapere di aver avuto il piacere di conoscere gli artisti più da vicino. Per i film la vendita dei biglietti, le file e gli esauriti frequenti hanno sicuramente mostrato le mode del momento. Ma prendiamo una citazione di Antonio Monda, Direttore artistico della Festa: Chi fa questo mestiere sa che spesso questo tipo di scelta nasce da un circolo vizioso che si autoalimenta: da un lato le parternship con il mondo del lusso e dall’altra un’attenzione sempre più spasmodica, da parte dei media, al momento dell’immagine scintillante. Tutto comprensibile, ma alla fine di un’esperienza cinematografica l’unica domanda realmente determinante è: si tratta di un buon film?

Una questione privata è il film di Paolo e Vittorio Taviani che si sono ispirati al romanzo omonimo di Beppe Fenoglio. Il partigiano Milton tornando nel 1943, con mitra e pistola, nella villa in cui ha passato giornate spensierate con l’amico Giorgio e la giovane affascinante Fulvia, di cui è innamorato, viene a sapere una mezza verità su una relazione tra la stessa ragazza, ora tornata a Torino, ed il suo amico più bello ed intraprendente, ora anche lui partigiano ed in mano ai fascisti. Come ha detto lo stesso Paolo Taviani, insieme a suo fratello non si sono inventati niente. La solita storia su un triangolo amoroso, con la follia d’amore del più debole in cui prevale in quel grave momento storico l’animo privato sull’anima pubblica. In un andirivieni confuso tra le alte montagne delle Langhe e le residenze e paesi del fondovalle. Con uno spaesato Luca Marinelli (Milton) sperduto nelle nebbie di una natura morta e deserta. In fuga da pattuglie fasciste o depresso in accampamenti partigiani, ma sempre estraneo al contesto storico, immerso nelle sue pene d’amore. Purtroppo anche gli altri personaggi risultano speculari all’interprete principale. Oltre qualche urlo di troppo, particolarmente legnosi, senza una efficace caratterizzazione. Il tutto in una distante discontinuità filmica che sa di stanco mestiere. Dopo la Notte di San Lorenzo il film su una resistenza minore.

Detroit. Di due ore e ventiquattro minuti una parte riguarda le sanguinose rivolte dei neri nel 1967 a Detroit. Un film documento-verità come la Bigelow ci ha abituati a vedere con delle perfette ricostruzioni piene di ferro e fuoco, rovine e saccheggi da ogni parte. E’ la storia esemplificata delle varie rivolte dei negri in America fatta di incomprensibili follie collettive e di feroci follie individuali. Poi la descrizione per un’ora di quello chiamato Algiers Motel Incident, una brutta storia di violenza perpetrata da alcuni poliziotti nei confronti di un gruppo di neri e di due ragazze bianche, trovati insieme in un hotel, sequestrati, picchiati, seviziati, fino all’uccisione di tre incolpevoli vittime. Un’ora abbondante di forte tensione, fatta di paura e di orrore, di violenze e di sangue, in cui chi non è di stomaco buono vorrebbe anche uscire. Con la parte finale in cui il processo è solo in favore dei cattivi bianchi (che sa tanto di retorica ed ipocrisia) e gli afroamericani sono privati della giustizia come ancora succede oggi.

Foto: Chiara Pasqualini

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Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.

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