Belfast e C’mon C’mon. Due difficili storie di maturazione

Per caso o per programmazione voluta ho visto alla Festa del Cinema di Roma in quattro ore due film che raccontano la storia di due interpreti principali di nove anni. E la sorpresa è stata che i bambini Jude Hill (Buddy) di Belfast e Woody Norman (Jesse) di C’mon C’mon (Andiamo Andiamo) sono stati proprio bravi.

I due film, il primo inglese di Kenneth Branagh (attore e regista teatrale), ambientato in Irlanda del Nord nel 1969, il secondo di Mike Mills (americano, regista di video e grafic designer) ambientato oggi in America, sono molto diversi, ma parlano entrambi di come si pongono due bambini rispetto ad una guerra civile, alla perdita di affetti genitoriali od altri altrettanto importanti ed a trasferimenti d’ambiente familiare e sociale: tutte situazioni molto traumatiche ma estremamente formative.

Due registi intelligenti che non hanno voluto usare il filtro melodrammatico ma realisticamente hanno sfatato il pietismo protettivo ed il buonismo irresponsabile di una società che non sa più allevare i figli, tenendoli nella bambagia del consumismo, senza più sostenere quelle loro caratteristiche di istinto reattivo che sono essenziali nella loro quotidiana battaglia esistenziale e sociale.

Iniziamo dallo stupendo bianco e nero 4:3 (Haris Zambarloukos) del film Belfast di Kenneth Branagh. La storia si svolge all’inizio di quelle tensioni e scontri tra irlandesi cattolici repubblicani e protestanti unionisti, durati per anni. Nella notte del 14 agosto 1969 alcuni gruppi di protestanti misero a ferro e fuoco le vie abitate da cattolici lungo l’arteria che attraversa i quartieri delle working class lealiste, roccaforte degli estremisti protestanti. I cittadini cattolici furono costretti a fuggire e rifugiarsi in altri parti cattoliche del West Belfast. Il regista Branagh, che all’epoca aveva nove anni, viveva in una via di questi quartieri misti, aveva una famiglia protestante ma molto tollerante ed un padre che lavorava da muratore vicino Londra e che tornava a casa ogni due settimane. Da anni voleva raccontare questa storia quasi biografica.

Ha iniziato prendendo un simpatico bambino irlandese, intelligente, mariuolo, pieno di lentiggini e di energie e lo ha inserito (interprete principale), con la sua curiosità ed interesse per una società ancora tradizionale ma in veloce evoluzione, in una storia di guerra drammatica universale. Poi intorno in cerchi concentrici ha approfondito con reale partecipazione la sua vita quotidiana fatta di scoperte e di sorprese, di gioco, di scuola, di piccole avventure, quella della sua famiglia, dei nonni, degli zii, degli amici del quartiere e attraverso la Tv degli eventi della città storici, sociali, religiosi ed economici difficili ma educativi.

Quello che tiene collegato tutto questo materiale, senza perdere niente per strada è stato frutto di tanta accuratezza, intelligenza, partecipazione e pathos di un regista giustamente premiato ad Alice nella città. Con scelte sempre coerenti di scrittura ed una direzione artistica di alto livello. In un equilibrio perfetto tra le parti di guerra civile, ambientati in una sola strada con le barricate, i fuochi e le ronde, i rapporti difficili tra posizioni entrambe sensate dei genitori (partire o rimanere), i saggi consigli di anziani malati molto presenti ed i piccoli amori infantili. E, pur essendo un film di tanta azione, con delle recitazioni superlative di Jude Hill (Buddy), Catriona Balfe (la madre), Jamie Dornan (il padre), Judy Dench (la nonna), Ciaran Hinds (il nonno).
Una chiusura del film con parole da mantenere vive nel ricordo di quegli infausti giorni. Per quelli che sono partiti. Per quelli che sono rimasti. Per quelli che si sono persi.

Il film C’mon C’mon (ancora uno splendido bianco e nero 4:3 di Robby Ryan) racconta invece una America troppo immensa in cui c’è sempre ‘la guerra’ delle distanze, con un fratello ed una sorella (vivono a New York e Los Angeles) che non si incontrano da un anno, ma con ancora più grave ‘la guerra’ alle alienazioni da bipolarità, da nevrosi, da depressioni, da farmaci.

Joachim Phoenix (Johnny) in una di quelle parti di cavaliere solitario, che vive facendo interviste ad adolescenti di scuole superiori su cosa pensano della vita, della famiglia e del futuro. Riceve, senza meravigliarsi, risposte sorprendenti su come non riuscire a stare insieme, sulla consapevolezza della mancanza di futuro, sulla rabbia della vita attuale, sulla inutilità dei problemi esistenziali e sociali mai risolti. Risposte che evidenziano una serietà deprimente ed una tristezza evidente nel presentare, in autocritica, vizi propri e della società del benessere non per tutti. Una analisi frustante di una società che non sa più nemmeno allevare i figli e bisticcia con rancore su come accudire o no i vecchi.

Con tante immagini riprese dall’alto di città invivibili (Los Angeles, New York, New Orleans, Detroit, Oakland), affollate di grattacieli ed autostrade piene di macchine. Case quasi vuote in cui si vive soltanto a letto, dove i pasti sono panini hamburger, tramezzini prosciutto e formaggio e gelati di grasso animale.

La sorella di Johnny, Viv (Gaby Hoffmann) vive a Los Angeles, ma deve raggiungere il marito, musicista malato di bipolarismo, nevrotico e depresso, che lavora ad Oakland e deve essere ricoverato in un centro specializzato. Johnny, introverso e solitario, si ritrova a gestire a Los Angeles il nipote Jesse, un bambino di nove anni con una personalità già formata, una precoce sensibilità e tanta immaginazione (ama e si fa leggere Il mago di Oz con i suoi strani personaggi).

Johnny è un uomo tecnologico, armato della sua attrezzatura professionale di fonico – intervistatore, dopo un inizio difficile di relazione con il nipote, che ha bisogno di sentimenti d’amore, fa domande inattese e senza tregua, obbliga ad un continuo confronto, vuole rispetto ed autonomia, lo porterà con sé in giro per l’America, facendolo giocare ed imparare ad usare la sua attrezzatura, assicurandogli protezione.

Il rapporto di maturazione parentale tra i protagonisti è intervallato dalle telefonate della sorella lontana, prima preoccupata e negativa, poi sempre più accondiscendente e serena. Mentre il rapporto tra zio e nipote diventa sempre più stretto e comprensivo dando ad entrambi una nuova dimensione della vita.

Forse l’aspetto più straniante del film sono delle svariate interviste agli adolescenti le troppe tematiche, con valori che non possono essere accompagnati dalle dovute riflessioni. Ci sono dialoghi troppo ricchi di significato e troppi contenuti, pieni di filosofia, antropologia, sociologia e quanto altro, che rischiano di distrarre lo spettatore dal messaggio principale dello sviluppo del rapporto genitoriale tout court. Come dice ironicamente il riccioluto Jesse, mentre ascolta con le attrezzature dello zio i rumori della natura e d’ambiente, voi uomini siete tutto un bla bla bla.

Anche in questo film, al di là della perizia registica che mostra vari registri stilistici, vale molto l’interpretazione sciolta del ragazzo Jesse, in pieno equilibrio con la recitazione controllata ed interiore di Joachim Phoenix e quella sopra le righe della figura divaricata (tra marito e figlio) della brava Gaby Hoffmann.

 

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Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.

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