Farewell un film che racconta la nuova Cina alla Festa del Cinema di Roma 2019

immagine per Farewell

Nel vedere Farewell, dopo una fila di circa mezz’ora, con la Sala Sinopoli piena in tutti gli ordini di posti, ho avuto la sensazione di un interesse molto profondo da parte di un pubblico che voleva capire bene con chi avremo a che fare nel nostro futuro: i cinesi, questi sconosciuti! Ma al termine della proiezione di un film filosofico e realista, semplicistico ed analitico (nel senso più esplicativo), l’aria di sollievo era evidente in tutti coloro che avevano sofferto e riflettuto per circa due ore.

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“Ma sono come noi, forse un po’ più indietro” ho sentito dire. In realtà si è vista chiaramente una trasformazione urbanistica ed antropologica inarrestabile che ha travolto tutte le tradizioni, il contesto naturale, le idee ed i sentimenti, che spariscono in Cina, giorno per giorno, con la morte dei più vecchi.

I nuovi cinesi non sono più quel corpo familiare e sociale compatto, senza ombra di individualismi, in cui ogni vita fa parte del tutto, e dove ancora resiste; sta, invece, sgretolandosi nella veloce scia di un travolgente progresso. I nuovi cinesi ormai dispersi nella nuova Cina della tumultuosa produzione di beni e servizi e nel mondo internazionale del commercio sono ad un bivio tra due sfide antitetiche: fare soldi e carriera o trovare una libertà personale.

Quelli che sono già usciti dal guscio di un paese antichissimo ed ancora oggi il più antico e tradizionale, sono l’esempio della più atroce sofferenza di solitudine, seconda a nessun’altra, in questa umanità ormai diventata ovunque migrante.

Ne sono l’esempio i figli della signora Nai-Nai di Pechino, uno emigrato in America ed uno in Giappone, che malgrado riempiano le loro cene, tradizionali nel cibo e nei discorsi, con sagge massime orientali e illuminanti aneddoti del passato, non riescono a coprire il dolore per la futura perdita della madre malata di un cancro terminale ai polmoni; così, fanno di tutto per tenerla all’oscuro della sua malattia (“Un detto cinese sostiene che ad uccidere sia più la paura che la malattia”), impegnandola ad organizzare il matrimonio di uno dei nipoti, che non è altro che un’invenzione, ‘una bugia buona’ come dicono i sottotitoli del film. Anche per poterla rivedere e stare con lei dopo tanti anni (25 per la famiglia americana) e ritornare poi nei loro infelici mondi moderni e competitivi.

Con i parenti rimasti in patria e tutti gli altri cinesi (incluso il portiere d’albergo) che vorrebbero sapere se chi è partito ha fatto fortuna e vive bene all’estero, o se invece i fortunati sono quelli che stanno vivendo ora lo strabiliante progresso economico, pieno di opportunità in Cina.

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La trama è più un pretesto per far vedere la storia di un paese completamente cambiato nel tempo (da economia sociale comunista a capitalista avanzata) e nello stile di vita.

Prima nelle strade normali tra case modeste c’erano solo biciclette e tutti facevano esercizi ginnici nei parchi,ora autostrade che si incrociano tra alveari di palazzi di edilizia popolare e residenziale, sempre più alti, colpiscono la sensibilità di Billi (l’attrice Awkwafina) perfetta nella parte della nipote americana e degli altri credibili familiari della vecchia Nai-Nai.

Molto interessante l’introspezione sulla giovane nipote Billi (in cui si intravvede in filigrana la storia della regista cino-americana Lulu Wang) che ricorda le case semplici ed i giardini d’infanzia (aveva sei anni quando era partita) dove aveva passato i suoi anni felici. Perché, rovesciando le prospettive, la regista sceneggiatrice fa notare la tristezza della protagonista Billi, una precaria che cammina per le strade di New York in attesa dell’occasione della vita, che nella filosofia americana ognuno dovrebbe avere, e la vitalità e serenità della vecchia Nai-Nai, senza ambizioni di scalate sociali.

C’è un’amarezza profonda in questo piccolo ma significativo film, che parla in fondo della difficoltà di vivere due identità, nello scontro di culture: la occidentale individualista e libera ma piena di contraddizioni e dubbi esistenziali e quella orientale in cui l’equilibrio tra yin e yang e la pratica dello Zen si manifestano nella ginnastica di respirazione e di energia che la nonna Nai-Nai insegna con amore alla nipote prediletta Billi.

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Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.

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