Triangle of Sadness. Conflittualità di genere e delle classi sociali nel film svedese vincitore a Cannes.

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Non è assolutamente banale ricordare che negli anni ’50/60 i paesi scandinavi (con Ingmar Bergman in primis) avevano iniziato ad analizzare la conflittualità di genere (maschile femminile, uomo donna) all’inizio di una nuova era esistenziale dopo i totalitarismi maschilisti e la conflittualità delle classi sociali, all’inizio del materialismo dilagante della società postbellica, attuale tardo capitalismo. Oggi sembra che siano ancora i paesi scandinavi (Ruben Ostlund per primo), in una società più evoluta (ma con gli stessi più complicati problemi di allora) a continuare a parlare dei nuovi rapporti di forza di genere e di classi sociali.
Il film Triangle of Sadness, anche se con il suo tono ed atmosfere ironiche e grottesche getta uno sguardo disincantato e pessimista, attraverso gli stessi due argomenti, sul nostro piccolo e meschino mondo sempre più degenerato e globalizzato.

Anche se nel farlo tiene conto, attualizzandosi, delle forti tendenze allo splatter ed allo scatologico, seguendo la teoria del contrappasso ed il ritorno agli istinti primordiali, che covano malcelati nella rabbia impotente del presente.

Il film è costituito di tre parti o lati (di tristezza), che attraverso un percorso circolare di eventi esistenziali e sociali ritorna idealmente all’origine della specie e poi velocemente alle ormai innate sovrastrutture di potere, insite nell’uomo, in una critica globale, senza pietà, del genere umano tutto.

Un inizio sfolgorante con modelli maschi seminudi che attendono di provare, per un casting su un marchio imbronciato (Balenciaga) od uno meno costoso (H&M), con in evidenza una critica corrosiva sull’immagine (l’apparire) che pervade la vita dei giovani, li deprime ed impigrisce nella loro esclusiva forma estetica.

Il giovane modello Carl (Harris Dickinson) ha una fidanzata Yaya (Charlby Dean), una modella più arrivista, un’influencer con molti followers, che coltiva con strategie varie ed immagini reali ad effetto. I due sono complici ob torto collo. Mentre Carl si trova in un periodo con poco lavoro e pochi soldi, cui tiene a dire non dà gran conto, Yaya più scaltra, gioca a farlo indispettire proprio sul piano dei soldi, che contano e come per entrambi.

Le schermaglie di genere vertono proprio sul fatto che il ragazzo non ha valutazioni di alcun genere mentre la ragazza ha una posizione professionale e retribuzioni migliori. Questi elementi strutturali e materiali (lavoro sempre più precario e guadagni sempre meno legati a genealogia o saperi maschili), hanno ormai cambiato forma e senso alle nostre vite. Ed inutili sembrano le reazioni di Carl che tende al più a rifugiarsi in una mascolinità ormai tossica.

La seconda parte del triangolo della tristezza si svolge su un lussuoso panfilo da crociera, su cui i due modelli sono stati invitati per la notorietà dell’influencer Yaya, che deve in qualche modo fare pubblicità alla bella vita dei ricchi, come se lo fosse lei stessa. Sul panfilo sono rappresentate le principali classi sociali divise per censo e privilegi della società attuale.

I primi sono i super ricchi, che passano giornate al sole con ogni possibile confort (sorseggiando champagne in piscina). Ne fanno parte (oltre i due modelli, i più belli ma i meno ricchi) personaggi vuoti, pomposi ed arroganti del jet set internazionale, tra cui Dimitrij (Zlatko Buric), un russo oligarca che vende fertilizzanti (merda – come dice lui stesso – dei suoi infiniti allevamenti) con moglie di una vacuità sconcertante ed amante vistosa.

Winston e Clementine, vecchi inglesi che producono bombe a mano e mine antiuomo, uno svedese informatico inventore di videogiochi, single con voglie da viveur. Una signora tedesca semiparalizzata da un ictus che riesce ad esprimersi sempre e solo con la frase “in den walken” (sulle nuvole) ed un’altra che vorrebbe far pulire le vele sporche su una barca che va a motore.

Ostlund sapientemente sa usare una satira grottesca e feroce sulle violenze psicologiche, le perversioni e le subornazioni usate dalla ricca élite nei confronti della working class, bianca o nera (terzo ceto sociale) costituita da camerieri, mozzi, donne di pulizie, addetti alle cucine ed alle macchine.

Il ruolo smisurato dato all’immagine di sé e del potere del denaro viene mostrato soprattutto nel momento della fantasmagorica cena con il Capitano (Woody Harrelson), normalmente sempre ubriaco in cabina, che ben rappresenta insieme alla efficiente Direttrice di crociera (Vicki Berlin) ed all’equipaggio in divisa, così servile, da non dire mai no ad ogni richiesta pur di ricevere extra mance, il più fulgido esempio di corrotta classe media manageriale.

Lo smascheramento di tanta ipocrisia sociale avviene allorché una tempesta fa beccheggiare la nave, senza nessuno al timone (una notazione molto puntuale sull’incapacità e la irresponsabilità umana nel gestire i destini del mondo: vedi i problemi dell’ambiente) e tutti iniziano a sentirsi male.

Momento cruciale quando la nave viene inondata da fluidi corporei in una chiara provocazione dark (vomiti e marroni acque reflue), che sottende il naufragio non solo della nave ma di una società da capitalismo decotto, simbolo delle traversie che si stanno preparando per le crisi, volutamente celate, del prossimo futuro.

Nell’ultima parte, in cui si seguono le vicende tragicomiche dei naufraghi su un’isola deserta, i rapporti di forza si capovolgono. Il sapere pratico sostituisce l’astrazione dell’apparenza e viene fuori la ciclicità delle dinamiche del potere, con gli oppressi pronti a diventare oppressori.

Le grottesche caricature degli otto naufraghi hanno una così forte credibilità da far pensare che gli ‘umani’ in ogni occasione o situazione non sanno che mostrare il loro volto peggiore. Una società può anche tornare alla sua origine selvaggia ma sarà sempre pronta a ricreare gli stessi schemi di oppressione e di violenza che ci contraddistinguono come specie.

Per ritornare alla conflittualità di genere in questa nuova situazione di necessità primarie, il bel modello Carl si adatterà a fare da ragazzo oggetto della nuova leader, la filippina Abigail (Dolly De Leon), ex donna delle pulizie ma animale tuttofare e la vecchia fidanzata Yaya ne diventerà l’alleata.

Lo svedese Ruben Ostlund, come Ingmar Bergman, è molto più avanti di tutti gli altri registi, non per niente ha vinto due volte la Palma d’Oro a Cannes in appena 5 anni nel 2017 e nel 2022 (l’Italia l’ultima volta ha vinto nel 2001).

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Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.

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