Downtown Abbey e la professionalità inglese alla Festa del Cinema di Roma 2019

immagine per Downton Abbey

Sempre di corsa, in un sabato molto intenso, per non perdere niente del variegato programma della Festa del Cinema di Roma. Ma con in testa il pensiero, con una operazione nostalgia di cui la Festa è piena, che l’ultima interminabile monarchia dell’umanità è ancora e solo quella inglese. Sono andato quindi alla fine a vedere Downtown Abbey ed ho fatto bene. E dire che c’era veramente di tutto nel programma di grande successo (ogni proiezione sold out alle biglietterie e folla immensa ed euforica sul red carpet).

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Film come Farewell del cinese Lulu Wang acclamato dal Sundance Festival, MilitaryWives di Peter Cattaneo (Full Monty), Willow del macedone MilchoMancheviski (premio Oscar con Prima della pioggia) e gli incontri ravvicinati con Ron Howard (Fonzie di Happy Days) anch’egli Oscar per A beautiful Mind ed il premio alla carriera a BillMurray.

L’ambiente agreste inglese dei castelli dello Yorkshire ha avuto sempre un grande fascino per gli amanti del cinema educato e tradizionale (galateo e protocollo, pranzi di gala, balli di corte e sfilate di ussari a cavallo). Basti ricordare Quel che resta del giorno (James Ivory 1993).

Alla fine del film, piccolo seguito di due ore sulle vicende della famiglia Crawley, proprietaria del latifondo del castello di Downtown Abbey (serie che ha spopolato e vinto premi dal 2010/15 con 52 episodi) ho dovuto riconoscere la grande professionalità del cinema inglese, simile al periodo d’oro del cinema italiano quando Roma (Cinecittà) era la Hollywood sul Tevere. Quali grandi maestranze ed attori sono passati di là!

Ricostruzioni grandiose, costumi, gioielli ed argenteria, trucchi e parrucche, ricercati oggetti di scena e musica suadente e trionfante al punto giusto (compositore John Lunn). Mi è sembrato rivedere rivisitato e migliorato il bellissimo film di Robert Altman, Gosford Park.

Certo Altman era un mago (un maestro) nel riuscire a dirigere un numero imprecisato di personaggi con attori in recitazione collettiva nella stessa scena (es. Nashville). Cosa nel cinema difficilissima, riuscita a pochi registi. I più preferiscono lavorare con non più di due attori in scena e se ne hanno molti, spezzettano le storie in modo di avere sempre a che fare con pochi, perdendosi per strada sempre qualcuno. Per poi ripescarlo con un montaggio vergognoso che non fa onore alla storia del film.

Ma in Downtown Abbey se la mano del regista non è quella del gigante Altman, ma solo quella del direttore di quattro episodi della omonima serie prodotta tra il 2014/15, il suo creatore e sceneggiatore, nonché premio Oscar, per guarda caso Gosford Park, è sempre lo stesso Julian Fellowes, Barone di West Stafford, che di questi argomenti se ne intende chiaramente moltissimo.

Che per questo film riprende appunto tutti quei personaggi, espressione di due mondi diversi ed uniti, con vite singole ma parallele, nelle loro differenze sociali quali la nobiltà e la servitù, con accenti (in edizione originale) da upper class e dialetti provinciali. C’è in tutto il film questo dualismo di comportamento estetico manieristico, sotto il quale ci sono solo esseri umani simili nelle loro debolezze e difetti.

Ed in più Julian Fellowes ha aggiunto in questo mondo già popolato di tanti personaggi così differenziati per strato sociale, i sovrani del Regno Unito che arrivano a far visita ai proprietari di Downtown Abbey, i Crawley, portando con sé altri nobili ed altri servitori, quelli di casa reale, differenti da quelli delle idilliache campagne della tenuta dello Yorkshire, con temi e situazioni diverse da quelle della serie, ma molto più complicate. Con un più evidente intreccio relazionare tra i due mondi che si affascinano a vicenda e che si incontrano in nuovi amori interclassisti.

Il regista Michael Engler, presente insieme a Michelle Dockery (Lady Mary Talbot), Hugh Bonneville (Robert Crawley), Imelda Staunton (Maud Bagshaw dama di compagnia), Jim Carter (il maggiordomo Carson) ed il rappresentante della produzione della Carnival Film (che con il grande successo ne sta guadagnando), ha diretto il pool immenso di nobili e camerieri al meglio, considerando che la scuola cinematografica di recitazione inglese è ancora quella del passaggio per anni sul palcoscenico dei teatri (in ed off).

Altri interpreti di rilievo sono Laura Carmichael nel ruolo di Edith Pelham, Allen Leech nel ruolo di Tom Branson, ex chauffeur, vedovo della figlia minore del conte, Joanne Froggart artefice di vari colpi da maestro nei confronti delle altezzose servitù reali. Il valletto promosso maggiordomo James Collier nel ruolo di Thomas Barrow, incognito omosessuale.

Il re Giorgio V (Simon Jones) e la regina Mary (GeraldineJames), dignitosi e ‘democratici’. Su tutti la immensa Maggie Smith che quando è inquadrata buca lo schermo solo con una occhiata od un verso o con una battuta tagliente e divertente, sempre, sempre da applausi a scena aperta.

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Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.

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