Il Cinema americano, che tutti sanno quanto è competitivo ed avanzato nei generi più tecnologici (animazione ed effetti speciali, azione e musical, ghostbusters) nelle competizioni dei suoi premi maggiori (Golden Globe ed Oscar 2021) si presenta con le tematiche più importanti ed attuali in un paese tanto democratico ma non certo egualitario.
Dando spazio e premi a quanti, produttori, sceneggiatori, registi, attori e maestranze varie hanno narrato e fatto denuncia (con il privilegiato mezzo cinematografico) delle situazioni di malessere più acuto nel multietnico, complesso Grande Paese.
Il Cinema civile, quello storico della discriminazione, dello sfruttamento della diversità, delle crisi economiche, della lunga strada della integrazione degli afroamericani, dei latinoamericani, degli asiatici, delle minoranze che combattono per l’uguaglianza e per la giustizia sociale, predomina quest’anno nei titoli principali dei premi.
O il cinema esistenziale e sociale come quello della cura degli anziani con patologie degenerative, dei soggetti con nuove invalidità da cambiamenti ambientali, da assuefazione a psicofarmaci e droghe, quello ancora più importante della denuncia di ogni tipo di violenza sui deboli e le donne.
Una critica anche positiva alle strutture politico-istituzionali (governi, polizia e servizi, giudici, grande finanza, capitalismo, datori di lavoro, ecc.) fatte però di troppi abusi, riferimenti ad una società giustamente liberista (come da Costituzione) che ha però eliminato brutalmente le voci libere e dove la stessa teoria costituzionale delle pari opportunità è oggi più che mai disconosciuta, con un aumento esponenziale della povertà.
È la presa di coscienza di una società, attraverso il media cinema, che si domanda in questo importante momento storico “Com’è e dove va l’America?”.
Una carrellata di scottanti tematiche attraverso le nominations ed i premi Golden Globe ed Oscar 2021.
A cominciare da Ma Rainey’s Black Bottom di George C. Wolfe, con il successo della musica afroamericana degli anni ’20, per la prima volta registrata in un album, in cui si evidenzia la forma di schiavitù cui erano sottoposti gli artisti dalle case discografiche ed in particolare la band della cantante più importante dell’epoca Ma Rainey (interpretata da una grande Viola Davis).
Il film ha vinto gli Oscar per i migliori costumi e miglior trucco ed un Golden Globe postumo per il miglior attore protagonista all’attore Chadwich Boseman, nella parte di un virtuoso trombettista (in cui si potrebbe intravvedere un giovanissimo creativo Louis Amstrong), morto dopo la fine del film.
Il biopic sulla cantante jazz afroamericana più famosa negli anni ’50 nel film The United States versus Billie Holiday di Lee Daniels che, in pieno periodo di linciaggio degli afroamericani, portava in tournée la canzone Strange Fruit, lirica sui corpi dei linciati che rimanevano appesi, per monito, sugli alberi del sud.
Perseguitata, intimorita, inquisita, e poi approfittando della sua dipendenza, incastrata e fatta morire incatenata in un letto di ospedale.
Un film di forte protesta nell’era del Black Lives Matter, in cui ancora gli afroamericani vengono massacrati. Golden Globe per la migliore attrice ad Andra Day.
Quella notte a Miami della regista Regina King. Il 25 febbraio 1964 Cassius Clay (poi Muhammed Alì), dopo la vittoria per il campionato del mondo pesi massimi di boxe, si incontrò in un modesto albergo per solo neri con Malcom X, fondatore del Black Nationalism Party, Jim Brown il più grande giocatore di football americano nonché attore di Hollywood (Quella sporca dozzina), Sam Cooke, uno dei più importanti cantanti, compositori e produttori musicali dell’epoca, per parlare, come indiscussi leader afroamericani, sulle tematiche della segregazione, dei loro rapporti con la comunità bianca per non essere solo sfruttati e poter aiutare i fratelli neri.
Film tratto dalla creativa pièce teatrale del commediografo Kemp Powers e candidato ai maggiori premi cinematografici.
Judas and the Black Messiah di Shaka King. La storia vera di Fred Hampton leader della sezione dell’Illinois delle Black Panther (infiltrata da un agente FBI), che lavorava per un cambiamento sociale e politico della società americana nel 1969. Come prima di lui Martin Luther King e Malcom X, Hampton venne anche drogato e poi ucciso dalle forze speciali, polizia ed FBI come pericolo nazionale.
La storia cinematografica è raccontata da un piccolo criminale Bill O’ Neal, che come Giuda divenne seguace del leader, carpì la sua fiducia e lo tradì portandolo alla morte.
Oscar per il miglior attore non protagonista, a Daniel Kaluuya (Fred Hampton) e per la miglior canzone dal titolo Fight for you.
Il processo ai Chicago Seven di Aaron Sorkin (sceneggiatore di capolavori come The West Wing e The social network) alla sua prima regia. Il film vuole riabilitare la buona fede di otto attivisti bianchi e neri), accusati di rivolta armata, associazione a delinquere, cospirazione e istigazione alla sommossa.
I fatti, in flashback, riguardavano le sacrosante proteste per la guerra del Vietnam durante la Convenzione Nazionale Democratica a Chicago il 28 agosto 1968, soffocate dalla Guardia Nazionale. Il film segue il processo politico, condotto dai pregiudizi di un giudice estremamente punitivo (un grande Frank Langella).
Condannati per cospirazione ed oltraggio alla Corte i Chicago Seven saranno assolti in appello, mostrando le contraddizioni di una giustizia prevenuta e pilotata dagli organi federali.
Importante per il cambio di giudizio le testimonianze di ex dirigenti del Dipartimento di Giustizia, che si contrappongono a quelle preparate ad arte per le condanne. Migliore sceneggiatura ai Golden Globe.
The Father – Nulla è come sembra di Florian Zeller, adattamento della sua pièce teatrale. Un uomo con una demenza senile rischia di rovinare la vita e la famiglia di una figlia molto presente, non riuscendo più a capire quale è il suo presente ed il passato, se vive da solo o nella casa di sua figlia, o se è ricoverato in una clinica.
In un tourbillon di smarrimento e confusione mentale fatta di ricordi, luoghi e persone, che si mescolano nella mente dell’anziano, lo spettatore viene travolto nella patologia di questa malattia ormai diventata sociale e globalizzata, come una pandemia.
Oscar per la migliore sceneggiatura non originale e per il migliore attore protagonista all’interprete Antony Hopkins.
The sound of metal di Darius Marder. La discesa nel silenzio di un batterista attivo di origini pakistane, per la perdita progressiva dell’udito, con l’unica speranza costosa di farsi impiantare un apparecchio metallico.
Il periodo di vita, sopportato male, in una comunità di non udenti che parlano per segni e la coscienza di una crisi depressiva, causata dal suo handicap.
Da apprezzare oltre che per la tematica originale per gli esperimenti sonori, basati su un ‘sound design’ innovativo, e su un lavoro di missaggio capillare ma stratosferico. Oscar per il miglior montaggio e per il miglior sonoro.
Una donna promettente di Emerald Fennell. Il film non è solo una vendetta del genere femminile contro tutti i soprusi e le violenze anche sessuali, subiti nei secoli. Vero è che Cassie, la donna promettente del titolo, ha vissuto un evento traumatico al tempo del college: la sua amica Nina ha subito una violenza da parte di un compagno di corso, mentre era ubriaca, davanti a molti amici.
Non creduta nella sua versione, Nina era caduta in depressione e ne era morta. Cassie decide di ritrovare il gruppo dei ragazzi del college per farli confessare, dopo che ha scoraggiato, in una campagna personale antistupro, molti uomini che pensavano di approfittare delle sue finte ma ben recitate ubriachezze.
Fortunatamente non è il solito film thriller od una insolita storia d’amore, ma è un vero atto di accusa di una ipocrita mentalità maschilista, che ubriaca o droga le donne per approffitarne, ancora ai giorni nostri. Premio Oscar per la migliore sceneggiatura originale.
Elegia americana di Ron Howard. Storia della lotta alla dipendenza di una madre americana, raccontata dalla nonna e dal figlio, che cercheranno sempre in ogni contingenza di salvarla dalla droga, dal carcere e dalla morte, per salvare dal fallimento anche le loro vite, unite indissolubilmente a quella della loro cara.
Magnifico esempio di forte amore familiare in un ambiente di bassa estrazione sociale, di precarietà, di povertà assoluta, di carenze sanitarie ed istituzionali, dove i singoli individui lasciati al loro misero destino combattono giorno per giorno per sopravvivere. Un’America dimenticata e sofferente che fa riflettere.
Glenn Close magnifica nel ruolo della nonna, candidata ma non vincente all’Oscar come migliore attrice non protagonista.
Minari di Lee Isaac Chung. Un film autobiografico di un immigrato sudcoreano che scava nella cultura e nella società americana con occhi orientali. La storia di una famiglia di immigrati, che conquistati dal sogno americano, dalla costa occidentale si trasferisce negli anni ’80 nell’Arkansas per creare una propria fattoria.
Gli interpreti principali sono un ragazzino alla scoperta di un ambiente da favola e dei giochi che non ha mai avuto (il regista da piccolo) e la nonna arrivata dalla Corea con le sue tradizioni ed i suoi difetti (ama le bibite gassate, gioca a carte, non è una nonnina premurosa ma come un tornado sa affrontare tutto da dura) e soprattutto ha portato una piccola pianta acquatica (minari) per preparare piatti coreani.
Attraverso i più disparati avvenimenti in panorami di natura incontaminata e deserta, difficile da plasmare, passano i giorni e gli anni, fatti di quotidianità, di idiosincrasie e contraddizioni razziali, di vittorie e sconfitte, di casi fortuiti e malasorte, di durezza del lavoro e di difficile convivenza con i locali.
Un film universale che ha conquistato il Golden Globe come miglior film straniero e l’Oscar per la migliore attrice non protagonista (Yoon Yeo-jeong, la nonna).
Nomadland di Chloé Zhao. Film sui nuovi nomadi americani, tra cui quelli che hanno perduto il lavoro per la crisi economica 2007/2013, che vivono spostandosi con furgoni (Van) attraverso gli States e fanno lavori saltuari per vivere.
Senza casa, né assistenza sanitaria, né servizi, né confort di ogni genere, e soprattutto senza convenzioni sociali. Con cose più importanti cui prestare attenzione! Fuori dai canoni di bellezza e di apparenza, al di là del giudizio degli altri, in una scelta difficile che può anche essere fatale, ma purtuttavia umana.
Ed è questo ultimo il film da vedere prima di ogni altro: premiato con il Leone d’oro a Venezia, con il Golden Globe per il miglior film drammatico e per la miglior regia, con l’Oscar per il miglior film, la migliore regia e la migliore attrice protagonista (Frances Mc Dormand).
Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.
Di tutti i titoli che hanno danzato sul palcoscenico della tronfia kermesse americana ho veduto soltanto “Minari”, acquistandolo online a 3€, vedendolo in due: 1,5 euro a testa contro i 17 della sala (ammesso che lo diano) + costo viaggio e parcheggio o bus e disinfestazione conseguente). L’ho visto con attenzione e senza pregiudizi verso queste farisaiche giravolte improvvise e assai teatrali cui gli americani statunitensi ci hanno abituato dal primissimo dopoguerra in poi. L’ho visto, ho annotato e mi sono stancato a vedere un film piatto, banale, senza nessun approfondimento psicologico, scritto con una grammatica povera, superficiale, banale, già vista e sentita millanta volte; e luoghi comuni a cascata, e la nonna e il nipotino… la malattia al cuore e la paralisi… sono mancati il Ku Ku Klan e i marzianini verdi, poi il vagone poteva essere piombato… come me che sono piombato in una tristezza, paventando ere di cinema politicamente corretto e libri politicamente corretti e quadri politicamente corretti e… ci saranno pure le guerre politicamente corrette e i virus proporzionali? Voglio essere tranchant: è uno dei film più miniminchialisti del secolo corrente.
Non si può negare che quest’anno le tematiche principali dei premi del cinema americano siano quelle civili e sociali. Dopo il reazionario periodo trumpiano, fatto di supereroi, spacconate, rigurgiti di razzismo ed apologia dell’economia capitalistica vincente, a scapito della crescente povertà e discriminazione sociale si torna a parlare (“con giravolte improvvise e assai teatrali”) di valori minimalisti di individui, famiglie e di gruppi emarginati (degradati, dimenticati, abbandonati dalle istituzioni ‘democratiche’). Non saprei se è solo ipocrisia del politicamente corretto. Ma intanto lo si dica anche se lo si ripete a cicli da un secolo. Forse è il caso di guardare a casa nostra, perché mi sembra che noi siamo più farisei. Nei nostri film ancora tutto va bene e continuiamo a far finta di niente in una ignavia sempre più diffusa. Si stanno creando disparità sempre più acute, disuguaglianze e aumenta la precarietà e la povertà. Ma tutti parlano ancora di benessere, di aprire tutto e di continuare in allegria a fare quello che facevamo prima. A quando una riflessione come quella che credo stia facendo l’America?
Caro Pino, ho scritto il mio commento di getto, perché l’argomento è tragico; di quelli che possono cambiare il mondo in meglio o in peggio per secoli. Poi me ne sono pentito perché sembrava una scortesia nei tuoi confronti. Poi tasto e via: meglio dirle le cose, aprire i dibattiti, che stare muti e gabbati a rifare le stesse cose per secoli. L’Italia è morente: vivono isole – anche tante – in cui si ricerca si discute si trasforma adattando la cultura faticosamente prodotta nei secoli, ma le isole immergono il loro corpo in un mare morto, prima di ogni altra cosa per un disinteresse assoluto, per ciò che la cultura invece è: ricerca, comprensione, assimilazione… Il bellissimo sito cui collabori ne è un esempio.
C’è un sommovimento che sembra inarrestabile perché diventa moda (non introito ma indosso): perché dovrei firmare per non far vendere birrette ai giovani barbari quando non passa neanche per la capoccia che per le vaccinazioni dovrebbe vigere l’obbligo. Abbiamo distorto il senso della democrazia: da governo che fa gli interessi del popolo tutto ad anarchismo liberaloide che fa perno solo sull’IO, Considera che il Noi era centrale anche nel fascismo (poi, vabbé!) e lo è stato nei vari socialismi sperimentati. L’IO ipertrofico è frutto dell’anarchismo capitalistico e ne è un assioma: IO e i miei bisogni. Invoco Cambronne!
Un abbraccio.
la parola chiave è disinteresse, avversione alla cultura vista come nemica dell’intrattenimento, cioè di quella pratica che ci pare catartica, liberatoria come una piccola luce in fondo al tunnel.
Oltre questo non è acquistabile e immediatamente spendibile negli ambienti auto assolutori, nei luoghi di reciproca masturbazione. “Aho guarda che c’ho” “ figo!!” “Sei popo un grande! Er capo de tutto”.
E le istituzioni? Corrotte, fasciste, machiste, ormai incoronate come corti del coattismo. L’america ha esportato questo tipo di democrazia fatta di grandi soprusi, divisioni annientamento sistematico della ascesa sociale su base culturale. Chi può studia ciò che serve allo status quo e intanto si indebita entrando in un circolo vizioso che li vedrà schiavi, immersi in un meccanismo oscuro da cui non si esce, si può solo camminare sui cadaveri dei più deboli o semplicemente sfortunati sin dalla nascita.
Quindi ben venga il nuovo corso del cinema americano che però suo malgrado rimane o meglio diviene elitario, come un isola in mezzo a un mare di merda.
Le masse sono instupidite dai ritmi disumani, dalle scelte politiche che continuano ad aumentare la forbice economica e sociale e fuggono verso riviere ombrellate che chiamano vacanze.
Grazie del tuo articolato commento Francesco. Ho vissuto e lavorato in America e so bene cosa significa “annientamento sistemico della ascesa sociale su base culturale”. Quando ci scambiavamo i biglietti da visita se nel mio non leggevano ‘dollari’ non mi avrebbero mai più chiamato.
Ma è di un altro argomento che hai sollevato, di cui mi preme parlare, arrivato dagli USA ed attecchito in Italia. “Chi può studia ciò che serve allo status quo, entrando in un circolo vizioso che li vedrà schiavi, immersi in un meccanismo oscuro da cui non si esce, si può solo camminare sui cadaveri dei più deboli o semplicemente sfortunati fin dalla nascita”. Ricordando l’avversione attuale alla cultura aggiungerei anche sui cadaveri di noi idealisti del pensiero. E non è solo una idea ma la constatazione quotidiana di quel vizio, diventato endemico, delle ‘morosità’ ad ogni livello pubblico e privato di cui non si parla affatto, ma che renderà tutti estremamente ricattabili.