Festa del Cinema di Roma #8. Una black comedy inglese ed il fascino fatale delle corse.

The Party - Sally Potter
immagine di Sally Potter
The Party – Sally Potter. Foto di Chiara Pasqualini

The Party. Un bel coraggio quello della sceneggiatrice-regista Sally Potter nel fare un film teatrale, filmato tutto in uno studio-casa, e sorprendentemente corto (71 minuti).

Una sfida intelligente od una ripetizione a distanza di un capolavoro assoluto come Chi ha paura di Virginia Woolf ? Il bianco e nero, molto inglese rafforza certo la classicità di questa sua commedia nera rimodernata, che potrebbe essere rappresentata tranquillamente in uno dei migliori teatri del West-End per varie stagioni, come avveniva una volta. Ma oggi che tutto è passato come può avere spettatori al cinema una commedia inglese dal tocco ironico (humor), condita di satira politica e sociale?

Sally Potter arrivò al successo con Orlando (1992), appunto un adattamento dell’omonimo romanzo di Virginia Woolf. Successivamente ha diretto Lezioni di Tango (1997), The man who cried (2000), Ginger & Rosa (2012). Ora con un cast ristretto ma di veri grandi attori ha girato il film in solo due settimane, in piena campagna Brexit (2015), avendo come esempio presente la più incredibile cronica insincerità inglese: fino all’ultimo dai sondaggi doveva vincere il no ed invece ha vinto il si.

Nel suo soggetto ci sono tutte le fobie della middle-class liberal inglese: arrivismo, favoritismo, fedeltà, sessualità, falso amore ed amicizie, ipocrisie rivelate, postmoderno, intellettualismo, giochi finanziari ecc.. Con dei dialoghi, in semplicità di forme, corrosivi e caustici e situazioni che rasentano lo slapstick. Battute humor al vetriolo, quasi banali ma taglienti e profonde.

Una talk-heavy chamber farce che, controcorrente rispetto al prolisso nonsense del cinema attuale, sembra abbia invece  sfondato, con il suo premio al Festival di Berlino e le critiche inglesi favorevoli. Non quelle italiane, perché più degli inglesi siamo succubi ormai delle mode tecnologiche degli americani, come animali da esperimento.

Ma partiamo dalla trama del film e dei suoi personaggi. Janet (Kristin Scott Thomas) è stata nominata Ministro della Salute di un Governo Ombra, mentre in Inghilterra è in atto una grave crisi del Servizio Sanitario Nazionale, e sta preparando un party per festeggiare con gli amici. Il marito Bill (Thimoty Spall), accademico e latinista non sta bene e rimane assente, depresso. Arriva April (Patricia Clarkson), la sua migliore amica, compagna di molte battaglie idealiste, ora cinica disillusa, accompagnata da un compagno Gottfried (Bruno Ganz) che ama la contemplazione ed aiuta le persone a guarire con training psicologici e aromaterapia (un vero guru new-age). Poi Martha (Cherry Jones) una accademica mascolina con la sua compagna Jinny (Emily Mortimer) che è in attesa di tre gemelli dopo una inseminazione artificiale. Ed infine Tom (Cilliam Murphy) un nevrotico assuefatto alla droga, ricco broker dell’alta finanza della City. In attesa della moglie Marian, in ritardo.

Sarà una battaglia verbale incrociata tra tutti i presenti, con assurde contraddizioni e tragicomiche evoluzioni. Segreti rivelati, alternati o sovrapposti alle musiche afroamericane, latino americane o caraibiche (molto conosciute dalla regista)che Bill propone con dei vinili sul suo giradischi. Bill che, malgrado la sua atarassia ed il suo rifiuto del mondo (dice che sta per morire), con una importante rivelazione riempirà di scariche di adrenalina un tranquillo party di paura, alla fine del quale nessuno sarà più lo stesso.

immagine del film, Ferrari: race to immortality
Ferrari: race to immortality

Ferrari: race to immortality. Il regista inglese Daryl Goodrich, visto alla Festa del Cinema di Roma, ha presentato un documentario sulle corse automobilistiche degli anni ’50 in cui Enzo Ferrari era un talent-scout alla ricerca sempre di piloti che lo avrebbero portato alla vittoria, perché era sempre importante arrivare primi per favorire l’ascesa inarrestabile della Ferrari.

Gli aforismi del grande costruttore-manager scandiscono con scritte ed interviste il documentario stesso. “Bisogna lavorare continuamente per non pensare alla morte”. Diceva Ferrari. E la morte è la costante del film di Daryl Goodrich nel decennio più fatale degli anni ’50 (39 piloti morti).

Un decennio in cui i piloti, con macchine sempre più veloci e potenti vivevano sulla linea sottile tra la vita e la morte, quando una curva, una macchia d’olio, una manciata di ghiaia, un ciuffo d’erba, un errore proprio od altrui, un guasto, un urto potevano essere fatali. E il pericolo era tanto per chi correva le corse, quanto per chi le vedeva bordo pista o sugli spalti. Sui quali cadevano spezzoni mortali di macchine disintegrate.

Tutto il documentario è accompagnato dalle voci delle mogli o fidanzate dell’epoca che tremavano ai box quando vedevano che l’auto del loro amato tardava ad arrivare e che raccontano oggi il sogno di un decennio leggendario di gladiatori, di guerrieri, tra vittorie ed auto in fiamme, tra rombi di motori e fiumi di champagne.

Solo negli ultimi minuti si vedono i loro volti, facendole diventare reali, attraverso un intelligente espediente filmico.

Piloti che hanno fatto la storia dell’automobilismo. Giovani raffinati, amanti della bella vita, come star del cinema, durante la settimana, pronti a sfidare la morte, pieni di adrenalina, la domenica. Il documentario ha ricordato il profilo e la morte di Eugenio Castellotti, di Luigi Musso, di Alfonso De Portago.

E la strategia di Ferrari, boss potente ed enigmatico, che li teneva sempre in costante competizione, in velocità e temerarietà. Due figure simbolo di quel periodo sono stati Peter Collins e Mike Hawthorn, entrambi inglesi. Due gentlemens, due grandi amici, seguiti dal regista Goodrich, con delicatezza ed affetto, quali interpreti principali del film, nella dolce vita da playboy e nelle morti da piloti. Peter Collins morì nel 1958 sul circuito di Nurburgring (Premio di Germania). Mike Hawthorn vinse il Campionato del mondo come miglior pilota nello stesso 1958, dopo il Gran Premio del Marocco, ma morì solo tre mesi dopo, ormai ritirato dalle corse, andando fuori strada con la sua vettura privata.

 

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Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.

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