Gita al Faro. Gli autori e l’Isola. Helena Janeczek

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Helena Janeczek

Anche quest’anno riprendiamo le nostre chiacchierate con gli autori invitati a partecipare al Festival Gita al Faro da Loredana Lipperini che ne cura la direzione artistica.

Assieme a loro vogliamo scoprire con quale immaginario e con che spirito soggiorneranno a Ventotene pronti a scrivere una storia nuova per un’Isola antica.
Continuiamo le nostre interviste con Helena Janeczek.

È sempre più difficile riuscire ad ascoltare una narrazione diversa da quella che ci viene suggerita dai media e dal timore diffuso. La sensazione è che si sia perso un linguaggio comune partendo proprio dai significati delle parole. Qual è un possibile suggerimento per tornare ad ascoltare storie coinvolgenti?

Guardarsi intorno. Guardare con attenzione. È la prima cosa che mi viene in mente. Stasera stavo seduta sul sagrato della chiesa a chiacchierare con un’amica; vicino a noi c’era un gruppo di giovani donne in Salwar Kameez, il completo tipico del subcontinente indiano, composto da camicione, pantaloni e scialle. Erano pakistane o bengalesi, non so, le comunità insediate dalle nostre parti arrivano perlopiù da lì,  dai due Stati musulmani nati dalla Partizione dell’India coloniale. Una donna sola usava il scialle per coprirsi il capo. Chiacchieravano tra di loro mentre i loro figli, bambini e bambine, correvano per la piazza o andavano in bici. Le donne, bellissime da vedersi con quegli abiti dai colori forti, mostravano semplicemente di avere una vita, una vita di relazioni, cosa non così scontata per una donna con bambini piccoli (una allattava), migrante o non, musulmana, cattolica, laica. I bambini e, sì, pure le bambine, liberi di correre, giocare, cadere, rialzarsi. Questo non significa che quelle vite siano idilliache, ma credo non sia scorretto cogliervi un piccolo rilievo che le storie delle persone sono molto più sfaccettate e stratificate come ci viene proposto dalle narrazioni correnti. Ecco, l’osservazione attenta combinata all’approfondimento conoscitivo di ciò che s’è visto,mi sembra un buon punto di partenza per poi trovare delle parole non scontate, stereotipate, facilmente propagandistiche.

Da dove nascono le tue storie?

Le mie storie nascono quasi sempre dalla Storia. Sono partita da quella della mia famiglia, soprattutto quella di mia madre, sopravvissuta a Auschwitz, quando ho scritto il mio primo libro di narrativa, Lezioni di tenebra. Poi mi sono gradualmente allontanata da quell’impronta autobiografica, però ho conservato l’interesse verso le storie non finzionali, le storie dove la vicenda individuale s’intreccia con gli avvenimenti storici – anche nel caso di personaggi  molto “altri”, come accade nella seconda parte dell’ultimo romanzo pubblicato, Le rondini di Montecassino, dove ripercorro il viaggio a Cassino di un ragazzo neozelandese, il cui nonno aveva combattuto con il “Battaglione Maori” durante la 2°Guerra Mondiale. Quelle due figure sono inventate, ma le vicende ricostruite e anche moltissimi personaggi secondari (gli ufficiali del battaglione, per esempio), sono storici. Mi piace la tensione tra invenzione – dove per invenzione s’intende il lavoro dell’immaginazione che dà corpo ai meri dati informativo –  e documento. Tuttavia la prospettiva che prediligo è memoriale, soggettiva. Infatti ciò che mi domando non è tanto che cos’abbia significato la storia in generale, ma come abbia inciso sulle persone comuni che l’hanno vissuta, come sia stata trasmessa, che cosa ne resta a distanza per chi viene dopo.

Di cosa parli con maggior coinvolgimento quando vuoi raccontare la vita reale? Famiglia, amore, crescita personale, oppure hai un tuo percorso meraviglioso?

Fin qui, mi sono dedicata spesso al rapporto tra relazioni familiari e crescita personale, dove la seconda scaturisce anche dal conflitto o, se non dal conflitto, dal bisogno di misurarsi e definirsi a partire da quelli che ci hanno preceduti.
La famiglia, in più, rappresenta quel microcosmo molto a portata di narratore in cui convergono l’aspetto relazionale psicologico e quello sociale o socio-economico, cosa che, a partire dall’Ottocento, l’ha resa il punto nodale perfetto per narrare il mondo anche nei suoi rapporti di forza molto concreti, le trasformazioni che avvengono da una generazione all’altra.
L’amore è un argomento che mi ha intimorito al punto da sfiorarlo ma non metterlo mai al centro di una narrazione. Ma ora che sono grande abbastanza, lo sto affrontando. Un altro tema che per me è piuttosto importante sono i legami affettivi non di sangue, vale a dire l’amicizia.

Che faccia hanno i tuoi lettori? Cosa credi li affascini della tua scrittura?

I miei lettori sono capaci di apprezzare una narrazione che concede spazio a tante storie, tanti personaggi, tanta Storia, senza offrirne una congegnata secondo le regole del plot romanzesco. Il mio lettore è qualcuno che condivide il piacere di lasciarsi portare da questi rivoli, di fare delle scoperte che riguardano cose realmente accadute, seguire delle riflessioni di carattere grosso modo storico-politico, e farsi a propria volta delle domande. Sono molto contenta di aver scoperto che coloro che apprezzano i miei libri sono sia uomini che donne, di tutte le età, inclusi anche parecchi lettori giovani.

Perché hai deciso di partecipare a Gita al Faro? Cosa ti ha convinto a dire sì? Ti era già stato chiesto?

No, non mi era ancora stato chiesto e ho accettato con salti di gioia. Chi non vorrebbe fare la cosa che più gli sta cuore su un isola meravigliosa? Oltretutto in compagnia di persone che stimo tutte, ma proprio tutte, a partire da Loredana Lipperini. E poi tengo davvero moltissimo a ciò che Ventotene significa, quindi poterci dedicare uno scritto mi fa solo piacere. Ma di questo dirò meglio più avanti.

È la prima volta che sei “costretta” a un eremitaggio letterario?

Sì, la prima volta.

Cosa cerchi nell’Isola?

La bellezza, il mare, la quiete, gli scambi con gli altri ospiti e con chi verrà agli incontri.
E la memoria degli antifascisti al confino, con la loro utopia realizzata in modo molto imperfetto e purtroppo in pericolo.

Ventotene sta tornando a simboleggiare la nascita dell’Europa, ora che l’Europa si è trovata di fronte ai suoi limiti e a tutto quello che ha disatteso rispetto ai “padri fondatori”. Pensi che ripartire da qui, dunque raccontare l’Europa in un modo sconosciuto ai più possa portare a qualcosa? Ma soprattutto ha ancora senso parlare di Europa quando il mondo più vicino bussa forte?

Nel 1948 la neonata UNICEF commissiona a David Seymour, ebreo polacco, fotografo durante la Guerra di Spagna accanto all’amico fraterno Robert Capa assieme al quale nel dopoguerra fonda l’agenzia Magnum, un progetto per testimoniare le condizioni dell’infanzia: Children of Europe. Le immagini sono ancora di una forza sbalorditiva; molte strazianti, altre capaci di mostrare lo spirito d’adattamento e la voglia di vivere di questi bambini – poveri, orfani, ammalati di tisi, mutilati. Le foto sono state scattate in Polonia, Italia, Grecia, Austria (nei campi profughi che raccoglievano la gente in fuga dall’Est), Ungheria. Se non fossero in bianco e nero, alcune sarebbero sovrapponibili con le immagini che oggi ci giungono da Idomeni o luoghi analoghi.
La migrazione odierna, ci dicono, ha raggiunto o sorpassato per numero quella del secondo dopoguerra. C’è però da tenere conto che all’epoca il mondo diviso in due blocchi e le condizioni di trasporto e comunicazione assai meno sviluppate che ai giorni nostri. Il mondo intero, in ogni caso, era distrutto, devastata tutta l’Europa: e quanto fosse terribile la devastazione del nostro continente, quanto le condizioni di noi europei allora fossero simili a quelli che oggi arrivano alle nostre coste, gli scatti di David Seymour ce lo ricordano benissimo.
Gli sforzi per rimettere in piedi l’Europa furono enormi e andarono vieppiù di pari passo con gli impegni per assistere le masse di rifugiati: la creazione del UNRRA per l’aiuto ai paesi danneggiati e alle popolazioni colpite che, pur nata come organizzazione dell’ONU, godeva del grande sostegno dell’amministrazione Roosevelt (dal 1945 al 1946 gli USA spediscono in Europa e Giappone 16.5 milioni di tonnellate di alimenti), e successivamente il piano Marshall.
È in quel contesto che l’idea dell’Europa unita comincia a diventare un fine – non disinteressato, perché c’è la Guerra Fredda – che trova appoggio politico. Purtroppo i leader europei, Germania in testa, hanno dimostrato di non essere inclini fare tesoro di quell’esperienza che ha concesso questo lungo periodo di prosperità e di pace. Non vedono l’esigenza che l’Europa, senz’altro nel contesto economico più difficile della globalizzazione, sviluppi una politica lungimirante come quella dei governi americani di allora.
Ma per questo l’Europa non dovrebbe avere più senso? Ha più senso tirare su i ponti levatoi, nazione per nazione, e chi è dentro è dentro, chi è fuori e fuori? È accettabile, compatibile con i principi fondativi della nostra civiltà e delle nostre costituzioni, e oltretutto, è fattibile? Non s’è visto con il Brexit che, dall’oggi al domani, chiunque può diventare l’invasore, il nemico odiato che disturba i padroni in casa loro? La politica della UE è stata miope e micragnosa oltre ogni dire: ha responsabilità enormi del clima che si respira. Ma, detto in estrema sintesi, l’alternativa che si profila oggi, a mio avviso, corre tra il danno socio-economico causato dalla politiche di austerità e il danno che temo verrà causato dal ritorno alle frontiere: l’accentuazione del conflitto, della violenza, possibilmente anche qualche guerra (la dissoluzione dell’Ex Jugoslavia  è stata rapida ma non di certo indolore), più il danno del decadimento socio-economico, perché l’instabilità politica dissolverebbe qualsiasi vantaggio eventualmente derivato dal ritorno alla sovranità nazionale.
È un’alternativa terrificante.
Spero non sia troppo tardi per l’unica altra strada percorribile: investire sull’Europa, investire su tutti i problemi che la riguardano: disoccupazione, mancanza di fondi per welfare a ricerca, migrazioni. Cogliere in extremis il momento critico per rilanciare.

Cosa chiederesti ai presidenti dei Parlamenti d’Europa che saranno a Ventotene assieme a te quest’anno?

Che non perdano occasione per ribadire che senza l’Europa unita, questo vecchio continente è destinato a soccombere, pezzo per pezzo. E che facciano presente – Laura Boldrini, aihlei, lo sa benissimo – che i confini dell’Europa, piaccia o non meno, oggi toccano, per esempio, anche la Siria. Questo, tra l’altro, non è colpa della globalizzazione, del neoliberismo ecc. Sono sempre esistiti periodi di grandi sconvolgimenti e migrazioni: e solo chi sa affrontarle, non ne verrà travolto, in un modo o nell’altro.

 

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Giornalista culturale e autrice di testi ed adattamenti, si dedica da sempre alla ricerca di scritture, viaggi, tradizioni e memorie. Per dieci anni direttore responsabile del mensile "Carcere e Comunità" e co-fondatrice di "SOS Razzismo Italia", nel 1990 fonda l’Associazione Teatrale "The Way to the Indies Argillateatri". Collabora con diverse testate e si occupa di progetti non profit, educativi, teatrali, editoriali, letterari, giornalistici e web.

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