Un incontro rivoluzionario. Teatro Patologico nello speciale di Rai3 Che ci faccio qui

immagine per Teatro Patologico
Domenico Iannaccone e Dario D'Ambrosi

C’è una trasmissione televisiva su Rai3, Che ci faccio qui, capace di indagare in luoghi perduti, in quei luoghi dove s’annida la rivoluzione, quella che non usa proclami, quella che ha un’organizzazione quasi invisibile, che va avanti oltre quel che raccontano poteri e comunicatori. Quella rivoluzione che è già in atto anche quando tutto sembra contraddirla.

Che ci faccio qui è ideata e condotta da Domenico Iannacone, uno dei pochi conduttori che si pone sempre un passo dietro al suo interlocutore, ascoltandolo, non sovrastandolo e trasformando la sua storia in un reportage di straordinario giornalismo civile.

Sabato 1° giugno, in prima serata, abbiamo avuto la grazia di poter assistere ad un numero speciale della trasmissione, dedicato al lavoro del Teatro Patologico di Roma.

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Domenico Iannacone e Dario D’Ambrosi

Si è parlato di matti e di teatro. Matti lo diciamo con la gentilezza di chi crede che le parole non feriscano quando non ce n’è l’intenzione e con la certezza che dire malato psichiatrico, sarà anche corretto, ma non fa poesia. Mentre, in questi esseri umani la poesia vive con forza e l’azione teatrale la moltiplica.

Era il 1992 quando Dario D’Ambrosi fondò il Teatro Patologico. Era un periodo culturale pieno di possibilità: ci si toglievano di dosso le paillettes e i plexiglass degli anni “da bere” e ci si cominciava ad interrogare sulla realtà di quella società ancora brilla di un fintissimo benessere.

Il teatro metteva a frutto tutte le sperimentazioni che si erano susseguite nei due precedenti decenni e trovava una grammatica utile per raccontare ed interagire con quel sociale che, dai tempi del Teatro dell’Oppresso o della Drammaterapia era diventato una necessità politica.

Lo trovavamo nel Parco di Via Ramazzini, zona dolente di ospedali e vecchi edifici, ci costringeva a guardare storie che non eravamo abituati neanche a sentire, ci proponeva tematiche su cui vigeva un silenzio colpevole, scoprivamo che nessuno di noi poteva considerarsi immune dalla diversità o dalla pazzia.

I suoi spettacoli mettevano in scena quello che non eravamo abituati a vedere, quello che non è finzione, ciò che non evapora con gli applausi e nulla concede alla catarsi.

E poi avanti, sempre lungo questa strada, fino a diventare un punto di riferimento in tutto il mondo, un visionario capace di fare del teatro uno strumento sociale e della follia un fatto teatrale, entrambi in grado offrire dignità, crescita presenza nella vita e di aiutare quella parte della società emarginata e dimenticata da persone e istituzioni.

Seguendo il format caro al programma, il Teatro Patologico è stato raccontato, tra reportage e interviste, nella puntata del 1° giugno dal titolo Siamo tutti matti, partendo dalla domanda alla quale, a 40 anni dall’entrata in vigore della Legge Basaglia, ancora non sappiamo davvero rispondere: chi cura oggi pazienti che non sono più negli ospedali psichiatrici? Chi li accoglie?

Guardando scorrere le vite ed ascoltando le parole degli attori di questo Teatro, abbiamo una risposta: essere parte di Patologico significa essere dentro un gruppo che accoglie. Non un ambiente che protegge ed esclude, ma una famiglia che stimola e partecipa. Una famiglia, forse migliore di tante altre, forse solo diversa perché ha compreso che basta un solo passo e tutti possiamo entrare nella follia.

Vediamo, ancora, come la recitazione si fa comunicazione, si rende via per uscire dall’isolamento; ascoltiamo parlare di poesia, di lettura, ma anche della propria malattia che, dopo essere stata messa alla prova nella realizzazione di uno spettacolo, diventa quasi una convivenza sopportabile.

 

Vediamo i ragazzi lavorare alla messa in scena de Il Cappotto di Gogol; ascoltiamo Dario D’Ambrosi dare le stesse indicazioni che un regista appassionato darebbe ad attori non malati e ci accorgiamo che i ragazzi hanno appreso una tecnica teatrale ineccepibile, hanno ricevuto gli strumenti per scoprire il teatro dentro di sé, stanno trovando una varietà di emozioni che raramente sono così sfaccettate nel teatro “ufficiale” e stanno restituendo tutto questo al pubblico con una espressività potente e senza che ci sia mai un’esposizione pietosa della malattia.

Se lo psicodramma è la tecnica che permette agli individui di farsi attori dando vita alle personali visioni o riproponendo in scena il proprio vissuto interiore, al Teatro Patologico si va oltre, si celebra un evento rituale, si rappresenta uno spettacolo creato con le azioni, i gesti, i suoni, gli oggetti, la musica, con le parole ed il coinvolgimento degli spettatori.

Ma oltre la professionalità ed il coraggio c’è la funzione sociale di questo teatro, il primo nel mondo a ideare un percorso simile. Un teatro che dovrebbe essere aiutato, portato come fiore all’occhiello, ma che invece che fa fatica a sostenersi e non sempre è compreso profondamente nella sua forza rivoluzionaria, nella grande opera d’arte che è riuscito a creare, nell’umanità che pervade ogni azione e che riesce a dare nuove possibilità e a far capire a tutti che la fragilità non è una condanna.

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Giornalista culturale e autrice di testi ed adattamenti, si dedica da sempre alla ricerca di scritture, viaggi, tradizioni e memorie. Per dieci anni direttore responsabile del mensile "Carcere e Comunità" e co-fondatrice di "SOS Razzismo Italia", nel 1990 fonda l’Associazione Teatrale "The Way to the Indies Argillateatri". Collabora con diverse testate e si occupa di progetti non profit, educativi, teatrali, editoriali, letterari, giornalistici e web.

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