The narrow frame of midnight (film franco-anglo-marocchino) può sembrare il brano di uno di quei canti di dolore che la musica araba ci ha sempre inviato, da noi inascoltata e mai interpretata. Non solo questa musica non si avvicina ad un nostro suono melodico, ma anche le parole, tradotte nei sottotitoli della proiezione al Festival Internazionale del Film di Roma, sono parole così lontane dal nostro sentire di cittadini europei od occidentali.
Cosa ci ha voluto comunicare Tala Adid, regista grintosa e sicura nelle interviste, figlia di esuli iracheni –marocchini, con questo suo ritorno a casa? Per i giornalisti presenti dopo la proiezione una storiella di rapimenti di bimbi in aree in cui regna disordine, caos e povertà. E sicuramente il substrato politico della pellicola vuol far vedere che non c’è un paese (Marocco, Algeria, Turchia, Kurdistan ed Irak) in cui lo human being non sia ai livelli minimi di sopravvivenza. Dove dittature, guerre civili, torture, distruzione e morte attanagliano le coscienze, rendono la vita miserrima. Dove l’unica soluzione di vita futura diventa quella di una emigrazione legale o clandestina, ormai apertamente osteggiata dai paesi europei (come dice una delle tante televisioni accese in lingua francese).
Ma la scrittrice – regista, attraverso una sua identificazione personale con l’interprete principale Zacaria (Khalid Abdalla), scrittore tornato dall’occidente alle sue radici ed infanzia iracheno – marocchina, ha voluto molto di più indagare il dolore dei popoli arabi oggi. Ora che la conoscenza delle rovine catastrofiche di tante civiltà antiche dall’Africa al Medioriente (Marocco, Algeria, Siria, Irak), viene metabolizzata da intellettuali locali, anche se fuorusciti, e non vista sempre superficialmente da scrittori e filmakers provenienti da dimensioni totalmente estranee. Come può, infatti, la macchina da presa di un francese, un inglese, un americano, far sentire la tristezza o la solitudine o la nostalgia di un vero figlio di quelle terre, ora abbrutite da colossi di cemento e parabole televisive o di case tradizionali fatiscenti o distrutte dal tempo e dalle guerre?
La storia, un ritorno a casa, alla ricerca di un fratello ribelle combattente, attraverso un percorso doloroso in paesi sempre più disastrati (dal Marocco all’Irak), mescolata alla fuga di una bambina di sette anni, Aicha (Fedwa Poujowane), da una delle nuove forme di schiavitù sessuale, rimane solo sullo sfondo. Il film invece unisce, con colori sempre in contrasto, un paradiso terrestre di ricordi di natura incontaminata e parlante nei suoi dettagli, con il vento che anima le cose, la pioggia che suona una musica lieve, ad un tragico invivibile deserto presente.
E gli altri personaggi cattivi (Hocine Choutri), incattiviti, solidali o ignavi alimentano quella tristezza che l’interprete principale Zacaria, trascina come una croce verso il calvario, per una umanità dolente e rassegnata. Travolto, fino all’annientamento, nelle scene madri di un mattatoio, pieno di morti dentro i loro sudari rosa, uomini e donne torturati, senza nome e di una piazza invasa da donne completamente vestite di nero, come un ulteriore messaggio di morte per un prossimo futuro.
Rimane fuori da questo opprimente pessimismo la scena di bimbi che giocano a mosca cieca in un grande prato, ai quali si unisce la piccola fuggiasca Aicha, che finalmente ride mentre tutti si rincorrono.
E’ questo un futuro possibile?
Pino Moroni ha studiato e vissuto a Roma dove ha partecipato ai fermenti culturali del secolo scorso. Laureato in Giurisprudenza e giornalista pubblicista dal 1976, negli anni ’70/80 è stato collaboratore dei giornali: “Il Messaggero”, “Il Corriere dello Sport”, “Momento Sera”, “Tuscia”, “Corriere di Viterbo”. Ha vissuto e lavorato negli Stati Uniti. Dal 1990 è stato collaboratore di varie Agenzie Stampa, tra cui “Dire”, “Vespina Edizioni”,e “Mediapress2001”. E’ collaboratore dei siti Web: “Cinebazar”, “Forumcinema” e“Centro Sperimentale di Cinematografia”.
Mi dispiace non aver potuto assistere al Festival. Tuttavia gli articoli di Pino rendono l’intesita’ e l’importanza dei temi affrontati. Il film sul Medio -oriente di Tela Adid e’ quello che mi ha colpito maggiormente. La storia- se l’ho intesa bene- di un emigrato che torna nel proprio paese e lo trova peggio di come l’aveva lasciato!!!e si rende conto che la diaspora all’inverso non funziona! e immagina e spera- questa e’ la mia interpretazione della scena finale che Pino descrive – che il futuro del paese sia il suo passato!! Perche’ nel Medio oriente l’ottimismo e’ un atteggiamento raro.
L’altro film che ugualmente si intreccia con le mie esperienze e’ Trash e le favelas brasiliane.Le condizioni sociali non sono assolutamente paragonabili a quelle dei paesi del Medio oriente. Ma anche in Brasile ci sono tante aspettative disattese, ma condite con il naturale ottimismo brasiliano. E proprio in questi attimi giunge la notizia che Dilma ha vinto il secondo mandato come Presidente del Brasile. Non so se leggere questa notizia come un segnale di ottimismo sicche’ i brasiliani possano esprimere il proprio talento e trovare opportunita’ nel proprio paese. Speriamo.
Grazie Pino
Una delle bellezze dei Festival del cinema è che ci offrono uno sguardo su paesi e realtà diversi e lontani. sono una boccata di ossigeno anche quando raccontano storie tristissime come questa. Ci risvegliano dal nostro torpore. Dalle nostre tristezze e cecità nazionali. Che peccato che poi la distribuzione non aiuti.perché il cinema potrebbe essere davvero una forma di dialogo e di conoscenza tra i popoli, un’arma contro il razzismo.
Ho visto il film di Walter Salles sul regista Jia Zhangke che bellezza, che sguardo sulla Cina così diversa da quella che vediamo ogni giorno nelle nostre strade e nei nostri negazi.