Tempo di Libri #3. Di cosa parliamo quando parliamo di violenza contro le donne

Di violenza contro le donne si parla, per fortuna, sempre di più. Se ne parla però troppo spesso  con lo spirito di chi deve espletare un dovere, magari nelle giornate comandate, come l’8 marzo e il 25 novembre. Alcune felici realtà, tuttavia, cercano di offrire al tema una maggiore sistematicità, e capillarità. È il caso di Pendragon, che pubblica e presenta nella prima giornata di Tempo di Libri Lasciatele vivere. Voci sulla violenza contro le donne. Si tratta di un volume tratto da un seminario, tenutosi presso l’Università di Bologna, a cura di Valeria Babini. Un testo, e un progetto seminariale, che fa della multi disciplinarietà il suo punto di forza.

Questo drammatico fenomeno viene affrontato su piani diversi, non privi di contrasti, e attraverso la lente di diverse, discipline. Giurisprudenza, medicina, psicologia, tra le altre. Concordi nel riconoscere che la violazione dei diritti delle donne passa sempre attraverso il corpo. Alla donna è stata storicamente negata la dimensione di pensiero, pensandola piuttosto come entità esclusivamente corporea. Un corpo fatto oggetto dalle stesse istituzioni. È stata la stessa legge italiana, per lunghi decenni, affermano i relatori, a legittimare la cultura patriarcale. Le generazioni degli adulti di oggi sono infatti figlie di un’epoca che non aveva ancora visto l’abolizione dello ius corrigendi, (1996) del delitto d’onore e la trasformazione dello stupro da reato contro la morale (1981). Per questo motivo, spiega il giudice Fabio Roia del Tribunale di Milano, è necessaria una formazione in questo senso fin dalle aule universitarie.  È sulla radice della mancata riprovazione sociale che germoglia la violenza, il rancore l’odio. Che è – ed è significativo che ad affermarlo sia un uomo – una questione maschile. Perché, spiega, è ancora complesso far capire agli uomini di avere commesso un reato. La ragione è che la prevaricazione è un portato culturale, che si trasforma nel solo mezzo di relazione sociale di uomini che non ne conoscono uno diverso, chiosa la sociologa Marina Piazza. Lo stesso portato culturale che spinge gli uomini, quando desiderano offendere una donna, a fare ricorso sistematico alla parola “puttana”. Il motivo lo spiega lo psicanalista Massimo Recalcati, citato dai relatori: ciò accade quando gli uomini non capiscono «la lingua straniera» della diversità della donna dall’immagine machista che è stata fornita anche a loro. Uno stereotipo che, se non trattato, spinge i colpevoli a reiterare i propri comportamenti, anche a distanza di tempo.
Si perpetua così uno stereotipo che ha origine, sottolinea Roia richiamando il filo rosso della natura storica del volume, dal ratto delle Sabine. Donne violentate che tuttavia si attribuivano la colpa e la vergogna non della violenza, ma di essere state causa della guerra. Sentono, come troppe delle donne di oggi, di essere state giusto motivo, con le loro azioni, della violenza agita dagli uomini, soprattutto quando sono loro congiunti. Un senso di vergogna che ha a sua volta motivazioni politiche e sociali.
Uomini bruti primitivi e violenti, quindi? No, tutt’altro. Uomini che a propria volta scontano lo stigma della vergogna. Quella di dover essere virili, di dover nascondere le proprie fragilità nella stessa misura in cui alle donne è imposto di mostrarla. Nella armatura di comando che è stata forzosamente messa addosso al genere maschile si trova quindi oggi un potere prigioniero, che può sfociare in episodi criminali che non conoscono differenza di ceto e di cultura.
Quale soluzione? L’educazione, per tutti. Per le donne a ritrovare la loro possibilità, la loro forza, uscire dallo stato di vittime e perdenti. Per gli operatori che si trovano a contatto con casi di violenza, a conoscerne le specificità, la natura traumatica, e saperla affrontare. Per gli uomini, a sperimentare anche l’accudimento, la delicatezza intesa in senso lato. Per tutti, la possibilità di «lasciare vivere, che significa soprattutto» come da conclusione del libro, «lasciare libere».

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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