Utoya. Quando la tragedia irrompe nelle case e lascia solo macerie

immagine Utoya. Mattia Fabris, Arianna Scommegna. Foto Serena Serrani
Utoya. Mattia Fabris, Arianna Scommegna. Foto Serena Serrani

Ogni narrazione si regge, a ben guardare, sul medesimo schema: un nemico irrompe a spezzare una situazione di quiete, all’eroe spetta il compito di affrontarlo e salvare chi è in pericolo. Perché il nemico sia tale in modo efficace, assume quasi senza eccezione i connotati del mostro, dell’entità che la società su cui si abbatte identifica con facilità come altro da sé.
Raccontare la strage di Utoya, che ha visto la morte di sessantanove giovani ospiti di un campeggio laburista nei pressi di Oslo il 22 luglio 2011, è difficile proprio per questo. Viene meno a questa necessaria caratterizzazione.

Come raccontare il dramma quando il nemico, il mostro, è, in tutto e per tutto, “uno di noi”? Quando tutto appare diverso da quello cui i drammatici eventi degli ultimi anni e il loro racconto ci hanno abituato?

Edoardo Erba, muovendo dal Il silenzio sugli innocenti di Luca Mariani, per il suo Utøya – parte della stagione itinerante di ATIR e ospitato al Teatro dei Filodrammatici – sceglie di raccontare una storia diversa con una voce diversa: quella di chi è altrove.

Sono gli occhi di tre coppie il filtro: due genitori che hanno mandato la figlia in campeggio proprio sull’isola, due poliziotti di una stazione poco lontana da Utoya, due semplici contadini, fratello e sorella, che mandano avanti la loro fattoria di campagna e da lì osservano il vicino, un giovane uomo taciturno, uno qualsiasi che tutto sembrava meno che un terrorista.

Nello svolgersi del racconto si intersecano frammenti dai contorni taglienti e frastagliati, come i vetri che impediscono ai piedi dei protagonisti di toccare terra, nella suggestiva scena di Maria Spazzi.

Sembra di avere davanti null’altro che scene di minuta, persino banale vita comune: Malin desidera un gatto che Gunnar piuttosto impiccherebbe. La poliziotta Ummi deve resistere alle avance di Alf, il superiore rude e spaccone. Inga invece è costretta a mandare avanti da sola la fattoria perché Peter, con un evidente ritardo mentale e la passione per la bottiglia, ha poca voglia di lavorare.

È su queste piccole vite che il dramma si abbatte inaspettato e deflagrante, da un momento all’altro di un giorno qualunque. E niente è più come prima.

Restano vite spezzate a metà, pezzi di tronchi tranciati e ormai irrimediabilmente compromessi, resi concreti sul palcoscenico, unico ingombro di una scena spoglia.

La regia onirica di Serena Sinigaglia si serve di questi pochi elementi per costruire sui dettagli l’impalcatura impalpabile e suggestiva di quello che è a pieno titolo un dramma borghese, evitando di renderlo claustrofobico.

Ciò che questo spettacolo sembra voler raccontare non è la storia di un uomo che uccide, come in un tragico videogame, dei giovani che per lui rappresentano chi ha tradito sé e la propria nazione aprendosi all’altro. Non è chiedersi cosa può aver spinto un uomo a attaccare il parlamento di Oslo come diversivo e poi a fare una strage in un’isola un giorno d’estate.

Ciò che conta è cosa accade a chi stava apparentemente al sicuro, la eco devastante dell’esplosione del dramma.

A questo punto la temperatura emotiva sale inesorabile, nell’angoscia esplode l’odio, la recriminazione, le reciproche colpe, e chi si era amato non diventa altro che «simbolo di ciò che è successo oggi». La sorte della piccola Christine, ossessionata dal superfluo e dal lusso come ogni adolescente, non è più così importante. Anzi forse persino un pretesto, perchè tutto è già accaduto.

Gli eroi non sono più tali, sono un uomo e una donna immobili, e la conquista di una polizia che non porta armi si trasforma nella voce assente di un responsabile imbelle che impedisce ai suoi sottoposti di agire, proteggere o salvare chicchessia, sancendo la irrimediabile inconciliabilità tra seguire gli ordini e agire come si ritene giusto.
E davvero è possibile una pacificazione in chi si chiede se avrebbe potuto evitare la strage, contravvenendo alla discrezione che i genitori insegnano ai propri figli?

In questo affresco così umano la strage non è assente, ed è quando irrompe in tutta la sua tragedia che lo spettacolo offre i suoi passaggi migliori, dilanianti, schietti al limite dello strazio, perchè inchioda lo spettatore a quello che spesso si rifiuta di vedere: la tragedia non si esaurisce mai in se stessa.

A sostenere la costruzione l’ottima prova di Arianna Scommegna e Mattia Fabris, che si moltiplicano dando corpo a sei personaggi a cui basta l’ausilio di un paio di giacche per essere ben resi e che non cadono mai nel patetico, nell’emozione facile.
Tra persone le cui semplici certezze spruzzate di odio per gli islamici ormai all’apparenza irrinunciabile vengono improvvisamente messe in crisi, c’è spazio per lampi di riflessione sulla politica, il bisogno di una fede e di una direzione che si scontra con la necessità di non credere in niente per restare vivi, la scelta di cambiare ciò che si è sempre stati oppure continuare come se nulla fosse accaduto.

Nello sprofondare nell’intimo dell’umanità, Utoya mostra una forza narrativa notevole. Si è offerto uno sguardo su un abisso cupo e originale, in cui però si trova spazio anche per qualche risata che non ha bisogno di denti stretti, come se si fosse cercato, scivolando pur con grazia in lievi tocchi di macchiettismo, di alleggerire un’indagine altrimenti troppo difficile da sostenere.
L’equilibrio nel complesso appare funzionare, ma rimane l’interrogativo su cosa si intendesse davvero raggiungere. Forse si sarebbe potuto osare di più, spingere lo spettatore nel buio, con la stessa assenza di scampo che una tragedia del genere impone a chi la vive.

Più difficile, più rischioso, senza dubbio. Ma funzionale a chiamare ciascuno alla presa di coscienza di un presente più complesso di quanto siamo abituati a pensare. E al confronto spietato con se stessi e col mondo in cui viviamo, oltre le mura del salotto in cui, per vivere tranquilli, è sufficiente chiudere la porta.

+ ARTICOLI

Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

My Agile Privacy
Questo sito utilizza cookie tecnici e statistici. Cliccando su "Accetta" autorizzi tutti i cookie. Cliccando su "Rifiuta" o sulla X rifiuterai tutti i cookie eccetto quelli necessari per il corretto funzionamento del sito. Cliccando su "Personalizza" è possibile selezionare quali cookie attivare.