Settimo cielo, Bluemotion ridà spazio a Caryl Churchill per dire le identità multiformi dell’oggi

Sulla scena degli anni Settanta, in cui pure il genere comincia ad imporsi come tema, c’è un filo di pressoché totale rimozione, che parte da Copi (più noto come fumettista) e arriva a Mario Mieli, ma passa anche dal Regno Unito, nello specifico da Caryl Churchill: nume tutelare della drammaturgia britannica, madre putativa e venerata di autori come Mark Ravenhill, in Italia è misconosciuta se non del tutto sconosciuta.

Ci è voluto il (nobile) lavoro di angliste accorte come Maggie Rose e Paola Bono per portarla al di qua della Manica, passando attraverso fallimenti editoriali e mercatini dell’usato, e oggi l’impulso di Bluemotion per ridarle respiro e lo spazio del palcoscenico; per liberarla insomma della polvere imposta e che non ha mai avuto, forte al contrario della modernità che la caratterizza.

Quella, ad esempio, che portava Mieli a dire, a metà anni Settanta, «siamo tutti transessuali» (facendo uso di un termine che oggi ha preso un diverso significato) per indicare la necessità dell’assunzione di ciascuno tanto del proprio maschile quanto del proprio femminile.

Si dava così inizio alla messa in discussione del concetto di genere – e di quello di orientamento – oltre che della correlazione fino a quel punto inevitabile tra identità, percezione di sé e biologia. Ed è una eco anche di questa riflessione quella che emerge dalla nebbia su cui si apre il sipario su Settimo cielo, al Teatro Elfo Puccini: In una scarnificata Africa del 1879, sintetizzata da un led, Betty, moglie del pater familias Clive, strenuo difensore di Corona britannica di fronte ai “selvaggi” indigeni, morale e status quo, ha le sembianze di un uomo, Alessandro Riceci, il figlio Edward quelle di una donna, Tania Garribba.

Ma niente, fin dalla prima parte della pièce, è come dovrebbe essere. Se, dice Adele Tulli in Normal «aderire alle aspettative della collettività è un esercizio inconscio», i personaggi di Churchill disarticolavano quattro decenni fa quello stesso inconscio. Il servo nero che rifiuta la propria gente per farsi strumento (fino a che punto sicuro?) del padrone, Xhulio Petushi, è un bianco, l’eroe amato dalle donne, Harry – Marco Cavalcoli, cela la propria omosessualità, il figlio Edward sta scoprendo la propria effeminatezza e accudisce le bambole della sorellina Victoria, la fedeltà è una chimera.

Mentre non fanno che ripetere le frasi che il mondo si aspetta da loro, appena restano soli la realtà fa parodia di ideologie grottesche e vuote di cui quella coloniale è soltanto il simbolo. Di un mondo machista, sessista e ridicolo che riproduce ostinato i propri schemi, tracciando un mappamondo d’aria destinato a travolgerlo.
E a preparare un volo pindarico, nella Londra di cent’anni più tardi, dove Churchill gioca liberamente anche con la plausibilità cronologica per raccontare un tempo, a lei contemporaneo, in cui il superamento del genere è demandato alla generazione successiva, e la liberazione ormai raggiunta porta una problematizzazione.

Nel rimescolarsi degli interpreti per i caratteri, la madre – Sylvia De Fanti – è una donna schiacciata dall’essere stata troppo a lungo possesso, il figlio (ormai apertamente omosessuale, pur se tendente a una femminilità che suggerirebbe piuttosto un altro tipo di percorso) è chiamato a confrontare la propria esigenza di devozione con la fame di indipendenza dell’amante Jerry, Marco Spiga; la perfetta sorellina Victoria scopre l’amore saffico con Lin, Aurora Peres, per sfuggire a un matrimonio con un uomo che ha fretta di ricordarle quanto tenga all’emancipazione femminile, a snocciolare teorie freudiano-psicanalitiche sull’efficacia del proprio piacere, mentre le relazioni si aprono e moltiplicano, scardinando il concetto di coppia.

Come Copi, Churchill costruisce un mondo grottesco e concretissimo, popolato di figure trans-genere, in cui l’orientamento è strettamente connesso ma lo sono anche il razzismo, la xenofobia, il rapporto con l’altro, la satira politica, che chiama in causa una Tatcher in formato gigante, allora neoeletta, che qui appare presa di peso da una serigrafia Warholiana. Caryl Churchil racconta i tabù, dall’incesto alla pedo-filia (ancora, sembra di avvertire una eco del contestatissimo passaggio di Mieli, che in Elementi di critica omosessuale solleva, in modo che meriterebbe una approfondita trattazione che di fatto non è stata fatta praticamente mai, il tema del trasporto erotico per e dei giovanissimi consapevoli: qui è il piccolo Edward ottocentesco, a chiedere..).

Come nell’autore franco-argentino, l’esplosione liberante e liberata della dimensione corporea e sessuale chiama la risata (e, soprattutto allora, c’è da supporre lo scandalo) sotto la cui surrealtà in realtà mai gratuita trova terreno fertile una riflessione la cui contemporaneità è denunciata proprio dalla consapevolezza di quanto sia a tratti incomprensibile, e per questo rimossa, anche nei primi decenni del ventunesimo secolo.

Una riflessione pregnante che si sorregge su un impianto drammaturgico complesso e articolato, che la compagnia dell’Angelo Mai sostiene con la leggerezza dell’abilità, in cui tutti gli interpreti sanno tratteggiare figure dolenti e libere, vivide e ricche. Nei tagli di luce Andrea Gallo, Giorgina Pi costruisce una regia e una messa in scena lisergiche e punk, alleggerendo la scena a contraltare della sovrabbondanza di trame e personaggi, trovando così un efficace equilibrio.

Bluemotion, che non si fa mancare la musica e l’ambiente sonoro dal vivo, si guarda indietro per guardarsi – ancora, da realtà fertile quale ha già ampiamente dimostrato di essere, dando prova di quanto sanguigna e schiettamente calata nelle contraddizioni della realtà, col sorriso sulle labbra e la mente ricettiva, può essere la sperimentazione, quando è maneggiata sapientemente e con lucida consapevolezza dei nervi (scoperti) da toccare.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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