Roberto Vecchioni. La felicità è questo senso di condivisione…

immagine per Roberto VecchioniQuando un uomo di cultura assurge allo status di Maestro, ci si aspetta da lui frasi illuminanti, anche a partire dalle cose più minute e banali.
Roberto Vecchioni maestro lo è giocoforza, se è vero che è una definizione che  gli si potrebbe attribuire due volte: una per la lunga carriera professionale  di insegnante, che resta parte fondamentale del suo vissuto e radice necessaria anche delle sue molte altre vite, e la seconda per quel ruolo di guida sovente l’Italia  tende ad attribuire ai suoi cantastorie.

Ed è in quest’ottica che si dimostra significativa «l’ode alla vita di un uomo che cammina in un tempo verticale e non può essere felice senza condividerla con le persone che ama», quei figli – «educati al sogno, al gioco e alla ricerca della bellezza » a cui augurava di essere felice ma soprattutto “contro”, in uno dei suoi brani più amati, Figlia, offerto a un pubblico incantato alla  fine di novanta, intensissimi, minuti di incontro con il  pubblico di Tempo di Libri per la presentazione di La vita che si ama, pubblicato ormai alcuni anni fa da Einaudi.

Eppure, ascoltandolo, sembra che Vecchioni si riconosca molto più volentieri nella qualifica di professore, strenuo difensore di una cultura «il cui nemico peggiore è l’ovvio, io ho cercato di non fare mai canzoni ovvie».

Una cultura che è tutt’altro che semplice accumulo di nozioni, ma che invece dimostra ogni giorno la sua qualità, lei sì, di maestra di vita, di felicità autentica – che è cosa diversa dalla gioia del momento. Cultura che a lui, spiega, ha insegnato soprattutto che: «il tempo si può tenere in mano, dominare».

È solo dalla cultura, asserisce, che si estraggono gli strumenti per non affondare in un tempo difficile e veloce come il presente: «La debolezza viene dal non aver cultura», che non è soltanto il possesso di nozioni, ma un’educazione alla bellezza. «Se non senti la bellezza non ti ci puoi aggrappare». Ed è questa possibilità di sentire, di percepire, che la cultura offre e che – spiega Vecchioni con la passione anche un po’ tranchant del docente che ha visto trascorrergli davanti generazioni di giovani – può offrire proprio a loro una possibilità di salvezza nel mare di insicurezza e bisogno di senso che oggi più che mai non riescono a vedere, compressi nella loro dimensione orizzontale, che non riesce a vedere i collegamenti  ma li spinge a una corsa alla realizzazione individuale.

Mentre è il fluire delle cose, il loro sorgere e trascorrere naturale che produce senso e possibilità: «Ogni destino nasce in un addio. Ciò che conta è dare il sé, spargere profumo». È questa, spiega, la lezione de la ginestra di Leopard, in una interpretazione che confluirà nel disco di inediti di prossima uscita. Così come il fiore che cresce ostinato alle pendici del Vesuvio «il compito nostro è spargere futilità, partecipazione». È così che è possibile fare emergere la felicità, quella che tutti abbiamo dentro, «e non dobbiamo capirla, ma viverla»

Una felicità, dice il cantautore a Giangiacomo Schiavi, che per lui ha i connotati della città in cui vive: «Milano è l’unica città, le altre sono parodie di città. Non si mantiene niente ma si mantiene tutto», commenta prima di commuovere la platea con una canzone che dell’anima profonda e magica della Milano come la conosce lui è l’esatta sintesi: Luci a San Siro.

Una felicità e una compiutezza che però prende soprattutto la forma delle parole. La loro dimensione corporea, concreta, che spinge il Vecchioni scrittore a scrivere sempre a mano, per potere avere davanti agli occhi «l’elaborazione dell’anima» di cui la solidità della parola – che si specchia in quella protettiva della città, è indice.

«Quando si tratta di costruire i labirinti e i misteri del pensiero la parola è sacra.». E il sacro esige forma del pensiero, rigore. È a causa della sua assenza che i ragazzi, bacchetta il professore, non riescono più a esprimere il loro pensiero: mancano gli strumenti.

E allora non è peregrino spaccarsi la testa sulla natura plurale o singolare di un verbo in un frammento di Saffo, spiega rievocando un amato mentore della sua giovinezza. «è da lì che si parte, dal senso di una cultura antica che dice che il mondo è insieme, la vita è comunità».

E allora la felicità è questo senso di condivisone, la pluralità di quell’uomo, la «commozione di un classicista» è l’essere insieme, uomini e donne, per cui si dovrebbe provare il sentimento difficile della «riconoscenza che non chiede niente indietro.»

Fuori da ogni stereotipo, in una parità che ritrovi quell’umanità di cui Vecchioni – che chiude l’incontro col recente Chiamami ancora amore – è straordinario cantore.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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