inQuiete Festival di scrittrici #8. 1938, molte voci per raccontare la memoria e imparare da essa

«Prima che arrivi la catastrofe siamo troppo indaffarati per sentirla arrivare». Sono le parole con cui Helena Janeczek apre il suo racconto contenuto nell’antologia 1938. Storia, racconto, memoria, e rendono la misura di quanto l’editrice Giuntina abbia voluto non soltanto fare memoria degli ottant’anni dalla promulgazione delle leggi razziali ma parlare al presente. E lo fa, non a caso, attraverso testimoni terzi che hanno dovuto costruire una memoria facendosela raccontare.

Come è accaduto a Igiaba Scego, che sa dai racconti diretti di suo padre, dalla memoria domestica che il 1938 non è iniziato come lo ricordiamo, ma la segregazione è stata provata nella Somalia cui la sua famiglia era originaria, e nell’Etiopia occupata militarmente. «In città come Asmara esisteva un reale apartheid, che dice molto a un presente confuso e disperato».

Da questa raccolta, voluta dal curatore Simon Levis Sullam emergono narrazioni profondamente diverse, generate da una sfida: chiedere agli storici di fare gli scrittori e agli scrittori di prendere dalla storia. Un impegno affrontato in modo diverso.

«Non amo l’idea di creare uno spauracchio di fronte al quale siamo indifesi, ma ci sono elementi che riemergono in modo carsico» riconosce la storica Vanessa Roghi, mentre la scrittrice Viola Di Grado specifica di avere «cercato un territorio di mezzo tra la Storia e una storia banale e successa milioni di volte» come la separazione di due amanti. Sotto, spiega, c’è una riflessione sul da farsi nel ricordare, perchè le catastrofi si ripetono.

«Anche ricordare non può essere esercizio passivo. Parto da un’operazione, perchè il ricordo non può essere una operazione comoda». Nella lettura di alcuni degli incipit, come quello dello scrittore Eraldo Affinati e della storica Enrica Asquer, si evidenzia un’altra particolarità: la maggior parte degli autori sono non ebrei; si apre così, suggerisce Scego, l’interrogativo di come questa pagina poteva essere letta da chi non ha vissuto in famiglia la discriminazione, e anzi discende da chi stava dalla parte del carnefice.

Una posizione che entrambe respingono. Più decisamente, nel caso di Di Grado, che pure annora come a posizione privilegiata dello scrittore gli permette di inserirsi in storie che non hanno a che fare con loro, sintetizzandocisi con le proprie esperienze, e descrivendola meglio perché con meno partecipazione emotiva», più diretta la risposta di Roghi, secondo cui «ci si è salvati con la memoria di una Resistenza che fonda la Repubblica.

Ho cercato di raccontare gli anni che ci sono voluti per smantellare l’impianto delle leggi razziali, attraverso un corpus di modifiche che Spadolini ha raccolto in volume, completate un pezzetto per volta nel 1987. Data dopo la quale è stata messa da parte una questione razziale che invece era centrale».

Più intensamente emotiva la reazione di Scego, che ammette: «Ho avuto una crisi, come donna italiana musulmana, proveniente da un paese dove l’antisemitismo esiste. Sentivo la responsabilità di questa appartenenza, come di quella di persona che ha vissuto il colonialismo».

Così, per la prima volta, l’autrice ha sentito l’esigenza di dare alla sua storia una protagonista lontana da sé, una donna ebrea, e ne è stata stupita. A ispirarla, racconta, le lacrime vere di Madleine Lebeau, che in Casablanca piange di lacrime vere, perché non solo il film parla dei rifugiati che scappano attraverso Casablanca, ma rifugiati sono anche gli attori, In questa raccolta, spiega Scego, «ho cercato di non parlare di colonialismo ma di ricordare le radici.

Tenendo a mente, ad esempio, l’immagine di Topolino che va in Abissinia per distruggere e uccidere i mori per farne pelli senza nemmeno sprecare pallottole, in ossequio agli albi di moda nel Ventennio e facendo sintesi di suggestioni diverse.

Di Grado invece, spiega di aver iniziato a immaginare attraverso gli oggetti, «i finti dettagli che fanno parte di uno scenario inerte ma diventano il perimetro della storia reale: sono andata per strati di significato». Un procedimento che si è rivelato, alla fine, catartico: «non so cosa ci ho messo dentro ma ho proiettato un mio sentire che era bello poter usare per raccontare un dolore collettivo».

La storica Roghi invece rivela di aver pensato di raccontare la vicenda della madre di Don Milani, ebrea triestina – protagonista invece del racconto di Asquer – che compilò una umiliante domanda di discimnazione per segnalare i propri meriti civili, sperando così di salvarsi.

Un pensiero che l’ha indotta a porsi una domanda capitale per chi svolge il suo mestiere, m come si fanno parlare i silenzi della storia? I sentimenti non provabili?«Tra i pregi di questo lavoro c’è aver fatto parlare dove le fonti non arrivano», risponde.

Le pagine di Carlo Greppi e Bruno Maida consegnano invece la rispsosta sulla funzione della memoria, in un presente come questo in cui l’odio trova una nuova forza. Insegnare, segnalando analogie e differenze.

Se infatti, conclude a nome di tutte Vanessa Roghi «oggi non siamo nel 1938 ma in democrazia, è proprio questo lo strumento da utilizzarsi per evitare un ritorno: La cittadinanza, e quindi lo ius soli, allora non è servito, ma oggi potrà essere dirimente. Pertanto non solo è necessario, ma «è una questione di decenza minima».

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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