Deuteronomio, Pentateuco #5. Quando lo straniero siamo noi

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Deuteronomio

Quando il teatro prova a raccontare il migrante, tende a mettere in campo tutte le proprie forze e la propria arte per avvicinare allo spettatore chi è altro da sé. Perché empatizzi, si senta coinvolto e tragga da questa vicinanza emotiva creata la propria lettura del messaggio che lo spettacolo lascia, o anche soltanto il godimento estetico di ciò che ha visto.

Per la chiusura del loro progetto triennale sulla migrazione, La Confraternita del Chianti sceglie una strada diversa. In coerenza con l’intero progetto triennale in collaborazione con il Teatro Verdi di Milano, la compagnia non chiama in causa un’alterità da addomesticare, far comprendere, disegnare a misura di chi guarda. Lo straniero, l’altro, il migrante siamo noi.

In Deuteronomio, l’ultimo capitolo che prende il titolo dall’ultimo libro del Pentateuco, questa specificità raggiunge il suo apice nel modo più vistoso.

È un giovane italiano il protagonista del monologo, uno dei molti che, oggi, partono a vent’anni per cercare un futuro solido. Anche lui è partito. É arrivato a Londra, ha imparato a parlare la lingua con la disinvoltura di chi ci è nato, ha trovato un lavoro comune e rassicurante, una casa in un piccolo paese dove i conoscenti sono in poco tempo divenuti amici, una moglie sposata presto, una figlia che si chiama Sara «perché andava bene sia in italiano che in inglese, volevamo farla sentire a casa in entrambi i paesi». E anche lui si sentiva bene. Realizzato. «Felice no. Ma contento».

Fino a che, in questo scenario quietamente idilliaco è arrivato l’orrore. Una bambina, tra le più in vista della scuola, è stata trovata morta. Violentata e poi uccisa. E niente è più stato come prima. Da un momento all’altro, l’uomo che si credeva integrato riscopre ciò che era. Che non ha mai smesso di essere.

Uno straniero. Un corpo estraneo accomodatosi dentro a quello di una società adesso pronta a ricordargli che era unita, sana, solo senza di lui. Che l’inquinamento che ha portato ora deve essere estirpato, allontanato. A partire da chi gli è più vicino.

È la sua stessa famiglia ha crearlo come mostro. E il mondo esterno non fa che adattarsi a ciò che è stato deciso per lui. Prono e affamato di odio e bisogno di eliminare ciò in cui non si specchia. L’accusa corre più veloce di quella della polizia, la condanna è già stata emessa. Bastano pochi giorni perché tutto finisca, e il mostro venga accusato, processato e giustiziato psicologicamente dal tribunale della vox populi.

Prova inoppugnabile: è uno straniero, e viene da un luogo dove coi crimini hanno famigliarità, da un posto che fa paura. Poi il vero colpevole arriva, e la polizia è costretta a scagionare suo malgrado lo sporco italiano. Ma la realtà della vicenda ormai non conta più. La gente ha già il suo mostro, non vuole altre spiegazioni. «It was you, we know, it was you. Lo sappiamo, sei stato tu». Goccia dopo goccia, in pochi giorni, l’italiano ha perso tutto.

Ed è qui che arriva la suggestione più spietatamente interessante che il testo di Marco Di Stefano offre. Mentre l’odio di chi non si rassegna a cercare il male dentro di sé non si ferma, sono i primi accusatori a chiedere perdono. Quelli più importanti, a cui gli altri possono credere. Ma l’italiano è già stato spinto troppo oltre. L’umanità che i gesti altrui gli hanno tolto, non può più tornare a loro vantaggio. In un uomo che gli altri hanno smesso di ritenere tale, c’è spazio solo per la vendetta.

Ecco come si crea l’odio, il disprezzo, che poi la cosiddetta gente per bene è pronta ad additare. Il mostro esiste davvero, adesso. E lo abbiamo creato noi, la società che si dice civile.

Questo testo ha il merito di suggerire: non impone letture, lascia che sia lo spettatore a dare le proprie risposte. Ma è difficile non rileggere in questa parabola di vendetta alcune delle pagine più dolorose e cupe del presente. Ed è per questa vendetta che l’italiano adesso si trova inchiodato a una sedia in un’asettica stanza per interrogatori, in una messa in scena per necessità minimale fino all’eccesso, al nulla più totale.

Non c’è scenografia, non c’è spazio per i movimenti scenici. Ne risulta una costruzione scenica a suo modo alienante, persino asfissiante, in cui gli unici momenti di presa di fiato sono gli istanti di straniamento in cui  il protagonista canta.

Tra incongrue luci stroboscopiche può recuperare il proprio corpo, metterlo in mostra, ed è proprio in questi passaggi  – in un efficace paradosso drammaturgico – che mostra il suo volto più inquietante e ombroso.

L’assoluto minimalismo scenico mette l’onere dello spettacolo interamente sulle spalle di Giovanni Gioia, e gli consente di mostrare a tutto tondo la propria intensità e la capacità di calamitare l’attenzione, sfruttando sapientemente e con giusta misura la sua cadenza partenopea da un lato e le proprie capacità canore dall’altro: sue sono infatti anche le canzoni e le musiche, queste ultime firmate in collaborazione con Lorenzo Brufatto.

Una resa di ottimo livello, favorita dal testo che Marco Di Stefano, – con la drammaturgia di Chiara Boscaro – gli mette a disposizione: cadenzato, spietato, con una scrittura asciutta e senza fronzoli a sua volta, (in cui gli amanti del genere potranno sfidarsi a cogliere i rimandi a Twin Peaks) che proprio in questa precisione amplifica la sua efficacia.

Si chiude così un progetto internazionale (questo capitolo è prodotto in collaborazione con SuqFestival di Genova e Infallible Production Draper Hall di Londra) intenso, denso di contenuto e curato nella forma, che in tutte e cinque le pièce che lo compongono ha dimostrato una qualità notevole per interpreti, testi e messa in scena.

Una prova inconfutabile, se questi sono gli interpreti, che il giovane teatro italiano è più vivo che mai ed è in ottima forma.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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