«Il confine della mia anima sono io» dalla malattia mentale alla pagina.

immagine per Alphabeta Verlag
Book Pride, Le vite diverse

«Io sono borderline, e tu? Schizoaffettiva» Un dialogo paradossale, di quelli che solo la realtà può avere. La realtà quando scava nel fondo delle vite che talvolta non si riesce, spesso non si vuole vedere. Questo scambio infatti non ha niente di metaforico. È la realissima, freddamente clinica presentazione di due persone ricoverate per disturbi mentali. Ragazzi come Alberto Fragomeni, che a Book Pride racconta la propria storia come la propria. Del giorno in cui qualcuno gli ha suggerito di provare a scrivere, per dare forma a parole che non riuscivano a trovarla. E come spesso accade, la parola ha trasceso se stessa, «ho scritto cose che mi facevano male».

Un dolore portato al suo estremo, ai recessi profondi di un sentire ai più inafferrabile, che il giovane autore definisce persino bestiale. Un tendere all’estremo attraverso cui «cerco di dire qualcosa che non è ancora stato detto, oltre i luoghi comuni senza accorgermi di crearne altri».

Ed è proprio in questo non detto che sta un mondo che, senza ipocrisie, si racconta dalla parte di chi lo vive sulla propria pelle, di chi combatte contro quelli che il resto del mondo spesso derubrica a Dettagli inutili, come da titolo del romanzo che Fragomeni ha dato alle stampe della collana di Alphabeta Verlag che approfondisce il tema della salute mentale.

Dettagli che inutili non sono per niente, non solo per Fragomeni, appassionato di cinema e letteratura che mette questa sua passione al servizio di una narrazione ironica e autoironica, attraverso una scrittura curata e precisa. Ma anche per chi si è confontato con le tre storie su cui l’editore, ha voluto portare nuova luce.

Narrazioni di esistenze, che ci sono e continuano a esserci, lontano dagli sguardi dei più. Fatte emergere da Peppe Dell’Acqua e garbatamente accompagnate al pubblico della fiera dell’editoria indipendente da Massimo Cirri.

Esistenze che trovano spazio nei libri, come quella della ragazza in cui Fragomeni riconosce sé: «Non voleva ammettere il dolore. Che qualcuno le chiedesse come stava, si offrisse di curarla. Riconobbi lo sguardo che avevo alla sua età. Rabbia, odio, tristezza»

Vite con traiettorie diverse, mai scontate, esiti mai semplici e con traiettorie divergenti. Accanto alla lotta di Fragomeni, che nel rifiuto di prendere parola lascia intravedere un sommerso articolato e forse in ebollizione, c’è la vicenda di Flora Tommaseo, la cui finissima scrittura trova nella pagina il suo luogo ideale e si esalta nella lettura che Sonia Bergamasco offre del suo La stanza dei pesci.

Un racconto di sé, quello della Tommaseo, che muove dallo stesso punto di partenza, scavando fin dal rapporto coi genitori «Gocce di tormento, di pianto, di calore. Figure immobili stantie e rigide ma generose allo stesso tempo. Montagna da scalare ferita dopo ferita, lacrima dopo lacrima», e che però dà conto di una battaglia vinta, di un vuoto colmato, dentro un sé infine riscoperto.

Nell’eleganza della parola trova spazio un presente con un volto nuovo, pacificato anche con chi le ha camminato accanto «Nonna quercia, te ne sei andata con il vuoto nell’anima, il nulla nelle mani per salvare tuo figlio, e lo hai salvato bene. Quando avrò un po’ di cuore in più, quando riuscirò a raccogliere i cocci di quello che ne resta, sarò la prima a dartene un po’».

Una nuova consapevolezza che però non dimentica mai il dolore e la fatica, quelli che chiama i confini dell’anima, quella parte di sé irraggingibile, cupa e terrificante, cui bastava un istante per rendere irraggingibile ogni libertà, inesprimibile ogni parola. Da cui si può uscire. E poi tornare, facendo un viaggio negli Ospedali Psichiatrici Giudiziari, e sapere che si è camminato sul confine, ma si è saputo romperlo, riempire di senso gli occhi vuoti dei molti sé che avrebbero potuto essere, ritrovati negli altri.

La malattia mentale però non è soltanto storia di sé. È anche storia di chi vive, cresce, si fa uomo accanto a chi sta male. Come un bambino che vede suo padre distruggere, improvvisamente il gioco fatto insieme al padre. E per la prima volta ne ha paura. Un bambino, il Marcello di La trappola del fuorigioco, in cui Carlo Nuccio si specchia, pur scegliendo di offrirgli la libertà del romanzo.

Una terza alterità, che gli consente di scegliere un’altra liminarità, quella tra la vita reale e il mito, come quello delle tarantolate, guarite dalla musica come queste tre vite lo possono essere dalle parole. A patto di non rinchiudere nel dominio dell’alterità la realtà, che ruota intorno a un nodo comune, spiega Nuccio, «il sovradimensionamento del senso di colpa». Perchè è proprio questo il cuore dell’incontro, che lo lega fortemente al filo rosso che Book Pride si è affidata.

Chi è stato paziente psichiatrico non è altro, neanche nel senso pratico del vivere quotidiano. Anzi contribuisce «a modellare il tessuto sociale in cui tutti noi viviamo: tutti i viventi», come da nodo tematico di tutta la manifestazione. E allora la cosiddetta malattia mentale non può essere rinchiusa nel dominio della patologia, ma può piuttosto essere intesa come «una maniera alternativa di vivere il normale»

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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