Dario Fo, Sant’Ambrogio e l’invenzione di Milano

Vi sono figure che, in determinati luoghi, non sono semplicemente un portato di una tradizione, di una credenza, di una storia, ma ne sono vena, parte fondante anche per chi non ne riconosce il sistema di valori. Chi dopo di loro, abbia instaurato con lo stesso luogo una forte mimesi, e abbia una sensibilità sufficientemente spiccata, non può che venirne in qualche modo conquistato.

Non sorprende quindi, in questo senso, la fascinazione di Dario Fo per Ambrogio, vescovo e patrono di Milano, sulle prime figuratosi come  immagine di uomo Inciso nel marmo e invece stracolmo di contraddizioni, affascinante abbastanza da dedicargli una spigliata biografia, nel 2009 Sant’Ambrogio e l’invenzione di Milano, che Tempo di Libri riporta alla ribalta nel giorno che dedica alla città che ospita la fiera.

Polifonica “voce” di Fo, l’attrice Federica Fracassi, chiamata a una suggestiva lettura che tratteggia la figura del consularis  laico e non battezzato venuto da Treviri capace di dirimere ogni controversia e portare  equilibrio nella Mediolanum del 300. Una competenza che lo faceva amare dai cittadini, al punto che, trovatosi a essere garante della scelta del nuovo vescovo, si trovò davanti un moto popolare che scandiva «Non ci sarà alcun popolo cristiano se non ci darete Ambrogio come vescovo».
Fo restituisce voce ad Ambrogio, e alla assolutezza con cui da parte sua, avrebbe rifiutato un simile incarico: «Ero conscio d’essere indegno d’essere chiamato vescovo, perché mi ero dato a questo mondo».

Ed è qui che la vicinanza fra il guitto Fo e Ambrogio si fa sorprendente: nella mascherta grottesca e paradossale che Ambrgio architetta, fingendo l’eccesso per svelare un se stesso autentico, gaudente, amante dei piaceri, libero da ogni rigidità dottrinale. Una messa in scena che tuttavia nulla vale di fronte alle certezze della gente, intenzionata a porre il suo valore morale a guida della città a discapito di ogni dimostrazione.

Non stupisce allora la passione di un mangiapreti come Fo per Ambrogio, figlio di questa libertà di essere oltre che dell’amore per la città. Come d’uso nei suoi lavori Fo mescola invenzione e ricerca, scoprrendo e colorando la storia, scoprendo persino una singolare vicinanza tra Ambrogio, tra i primi a far tornare la terra ai contadini, e Marx, di cui per un attimo, la coincidenza che li vede entrambi nati a Treviri appare quasi rivelatrice,  quando  Fo gioca a forzare mettendo le parole di Marx in bocca al suo Ambrogio.

Quella di Ambrogio è una Milano che Fo vagheggiava e amava, una città «di torri e di acque, che trasporta, luogo di commerci e incontri» come ricorda Giuseppina Manin, Città acquatica di barche e chiatte, è ancora Manin a ricordare come Fo amasse ripetere che: «la vera natura di Milano è acquatica».

Il lavoro di Fo su Ambrogio non è che uno degli esempi della passione del teatrante per alcuni santi ribelli e gaudenti cui «la seconda vita cade addosso», come Francesco, ma anche per il tragitto verso la santità. Da profondo conoscitore e manipolatore di cultura nel suo senso “terrigno”, Fo recuperava anche nelle agiografie le letterature popolari, le belle storie da raccontare di cui il giullare è cantore naturale, poiché sa che: «anche il ridere e lo sghignazzo possono essere sacri».

E così il carnevale, a  Milano  più che altrove, anche nelle parole di Ambrogio si fa rito potente e sentito- Accogliendo questa tradizione Ambrogio inventa una città, in cui  «Santi e dei si camuffano dentro società diverse, e la conoscenza di chi ci è estraneo è un dovere.» e a testimoniarlo c’è un altro santo, Agostino, giunto dall’Algeria a Milano da straniero sapendo  che «in questa città non sei giudicato in conseguenza del tuo colore”; “questa è la dote più grande dei padani, spero che non perdano questa qualità», risponde soprattutto all’oggi l’Ambrogio di Fo.. Lo stesso che voleva fermare il fanatismo, perché, «è questo che mi spaventa: perdere la misura e l’ironia».

Un ironia che non perdona né santifica, quella di Fo, e che anzi è pronta a rimproverare anche ad Ambrogio gli eccessi di rigore dottrinale, gli spazi di chiusura, di giudizio, di un uomo eletto giudice proprio perché tutt’altro che integerrimo.

Ma abbastanza umano da far rispondere a un Agostino che dichiara di volergli ricordare il valore di misura e tolleramza  «dovresti farlo; ti applaudirei»

Un Ambrogio, come Fo, che somiglia a Milano. “Città godereccia, laica, molto viva”

Anche il funerale di Ambrogio fu di popolo, come quelli di Dario e soprattutto di Franca Rame, che aveva chiesto qualcosa di rosso, trasformando la città in una marea rossa. Fo invece ha avuto un funerale sul sagrato, forse come Abvrogio: appaiati; il vescovo che fu, il laico che lo ammirava.  Lo stesso amore per il sacro che per Ambrogio passava dal Pastorale, per Fo dalla maschera, di cui faceva collezione.

C’era una folla, tre anni dopo che era stato lui a salutare l’amata Franca con una genesi al femminile – ricorda la Manin – a salutare “il matto irriverente che siede al tavolo  con Gesù, sciur e vilan. Il matto che parla con Cristo, Amleto che parla col teschio, il fool che scavalca gli anni con la levità della giovinezza e celebra la vita”. Ridendo, come il giullare chiede, perché “il troppo piangere non fa per noi, nel mistero buffo della vita e della morte”.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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