Un’angosciosa bisbetica domata, tra il vero e il falso ma oltre i generi

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La Bisbetica domata

Uomini in abito nero e gorgera punteggiano un irreale e rigoglioso paesaggio boschivo, e sembrano emergerne. È con un quadro preraffaellita che prende vita che si apre La Bisbetica domata andata in scena al Teatro Carcano. Eppure fin dal primo istante si confondono verità e menzogna, perché è questa cornice a rivelarsi la realtà dentro cui si incastona la trama Shakespeariana, nient’altro che una burla all’ubriaco del paese, Smariglia, trasformato per qualche ora in gran signore.

Così la natura scompare e svela la messa in scena, in cui coesistono due i mezzi espressivi, il green screen e il palcoscenico, tra quinte a vista e grandi scale semoventi. La regia di Andrea Chiodi ambienta in questo livido non luogo una delle più note opere del Bardo, in equilibrio fra innovazione e fedeltà alla trama, così come all’uso dell’epoca che voleva in scena esclusivamente interpreti maschi.

Sono quindi i componenti di una stessa squadra, con tanto di numeri di maglia e nomi ricamati a fili d’oro sulla schiena, ad occupare il palcoscenico, accomunati sia dal genere che dalla consapevolezza del gioco, quel “play” di grande ricchezza semantica che notoriamente l’italiano “recitare” cancella con troppa leggerezza.

Non fanno eccezione gli interpreti della bella Bianca, oggetto dell’amore di Ortensio, Gremio e poi Lucenzio, e della “bisbetica” sorella maggiore Caterina, per la quale i giovani si alleano a trovare marito, il solo modo per poter poi sperare di ardire alla mano della minore. Proprio a questo mira l’irruento Petruccio, certo di poter aver ragione della bisbetica, per quanto ostica essa si possa rivelare.

Di nuovo nient’altro che un gioco di incastri di reciproci interessi muove lo svolgersi degli eventi, e il calcolo di spese e guadagni soppianta ogni sentimento. La verità e la finzione perdono nuovamente i loro connotati, sfumati da un’arma potente e camaleontica: la parola che tutto dice e tutto nasconde.

A dar corpo alla vicenda un gruppo nutrito e prestigioso: Christian La Rosa, Igor Horvat, Max Zampetti, Walter Rizzuto, Ugo Fiore e Rocco Schira che da volto a una Bianca divenuta di fatto kophon prosopon, il personaggio muto della tragedia classica. Ciascuno svolge con perizia il proprio compito inserendosi nell’efficace ed intricata trama che il regista ordisce ricorrendo a una grande quantità di registri e mezzi espressivi, lasciando spazio persino a originali intermezzi di violino e a lampi di surreale musical al ritmo di Love me tender e Magic Moments che riescono a non sembrare aporie. Ne emerge un ordito in cui uno scambio di casacca è un mutare di identità e la burla fondativa dell’intera lettura (sciolta poi senza colpo ferire) torna nel travestimento necessario ad avvicinare la donna amata.

In una resa già di qualità, uno spettacolo a parte per intensità e prova d’attori, ancorché perfettamente coerente al primo, è offerto da Tindaro Granata e Angelo Di Genio.

Il primo veste con una credibilità sorprendente e mai parodistica i panni della bisbetica Caterina, i cui accessi svelano subito, nel doloroso scontro con la sorella, le fragilità di una giovane che attacca per nascondere le proprie insicurezze. Ed è in questa logica che si spiega esattamente lo stravolgimento copernicano che tra il primo e il secondo atto fa della indomabile Caterina un’entità annichilita, ridotta al rango di bestia da un giovane che l’interpretazione di Di Genio da allegramente spaccone fa mutare in rozzo, volgare e violento al di là del sopportabile, una volta capito come «ammazzare una moglie con cortesia».

Le riuscite schermaglie tra due persone che non si amano si tramutano nella dolorosa, drammatica fenomenologia di un assassinio della volontà che non lascia nessuno spazio alla presa di fiato, cancellando ogni possibile sollievo che non sia l’adattarsi al totale annullamento.

Coraggioso e originale scegliere di rileggere proprio questo testo, in tempi in cui tornano sotto i riflettori le imposizioni del potere maschile sulle donne.

Eppure, la programmatica assenza di consolazione di questa validissima rilettura di un classico, lungi dal mostrarne l’anacronismo o la misoginia, chiama nuovamente in causa chi l’osserva. Il monologo finale, in cui Caterina consegna la propria morte interiore a una schiera d’ombre defunte, congeda lo spettatore con un senso di turbamento che gli rende impossibile respingere interamente ciò che ha visto a un altro tempo o un altro luogo. La parabola di Caterina sussurra, dal silenzio al quale è ridotta, qualcosa di più articolato e profondo di una contrapposizione di genere: sono cambiati i modi, ma le armi – inclusa la parola – restano e si fanno più sofisticate. L’angoscia che resta addosso lascia supporre che non si sia poi così lontani, che il confine tra la finzione della scena e la verità sia molto più sottile di quanto ci piaccia tracciarlo.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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