Più Libri Più Liberi 2019 #7. Il teatro non ha né funzione né missione. Lo sguardo incomodante di Yasmina Reza

Una delle firme più amate e apprezzate della drammaturgia contemporanea, francese, europea e non solo, se è vero che dal suo Il dio del massacro Roman Polanski ha tratto il fortunato Carnage. Capace di scavare con spietata esattezza nelle pieghe dell’umano, nella crudeltà di tutti i giorni, nella potenzialità dei rapporti umani di deflagrare e investire chiunque li componga.

Lo raccontano i suoi testi, da Arte a Bella Figura, passando per i romanzi, come Babilonia. Lo racconta il suo scrivere affilato come le parole che Yazmina Reza affida a Più libri più liberi, incalzata dalle domande di Caterina Bonvicini e Sabrina Mainardi, in un incontro in cui a descrivere un volto che non vuole essere immortalato non potrebbe riuscire nessuna fotografia più dall’acutezza delle sue parole.

Del resto, “il corpo fa parte dell’atto della scrittura”. Protagonisti dei testi di Reza sono spesso coppie, perché “Non c’è niente di più impenetrabile di una coppia. Non riesci a capirla neanche quando ne fai parte”. E così la crisi, l’assenza di comprensione di una coppia è “l’immaginazione che allontana”. Dal dialogo che regge il teatro di Reza emerge così piuttosto il suo contrario, lo sforzo per superare  un profondo silenzio “Viviamo in società ma l’integralità dei nostri pensieri è incondivisibile. Spesso siamo opachi innanzitutto a noi stessi, e quindi io vedo questo come un cammino”.

Una riflessione che si riverbera in modo potente sul lavoro dell’attore, scardinando le certezze che l’interprete per primo crede di possedere. Quando è regista dei suoi lavori, commenta Reza, ha un suggerimento, sopra tutti: “dillo ma non pensarlo”.

Spiega: “spesso gli attori impersonano le parole, ci si attaccano. Ma le parole sono menzognere”. Un distacco che tuttavia è il precipitato del suo contrario, da sperimentarsi invece in fase di scrittura e produce il ritmo serratissimo e puntuale che rende immediatamente riconoscibile la penna della drammaturga parigina: “chi scrive è animato da un flusso nervoso, altrimenti produce una letteratura piatta. È questo che fa il ritmo, che ha a che fare con gli stati d’animo: la stanchezza, il malanimo. Tutto ciò che non è tranquillità. La letteratura non è tranquillità”.

Il dialogo si apre così alla riflessione sul teatro dell’ultimo secolo, che da Artaud a Castellucci si è posto come obbiettivo lo sconvolgimento, una crudeltà di cui quella di Reza appare una nuova e originale declinazione.

Notano quindi le intervistatrici: “oggi c’è un rinascimento teatrale che chiedere di ricostruire una speranza. Pensa che il teatro possa essere questo?” La risposta di Reza è eloquente e non lascia spazio a fraintendimenti. “Il teatro non ha né funzione né missione. È la morte delle cose, dire che l’arte ha una funzione. Ma la mia non è un’idea né contemporanea né diffusa. Non siamo portavoce, non abbiamo qualcosa da dire. Ha una funzione intemporale e imperitura e questo basti. Si tende a identificare scrittore e intellettuale, come se il primo dovesse avere una visione del mondo oggettiva. Noi siamo artisti che hanno a che fare con la follia, non certo con la saggezza. Uno scrittore che non dà mostra di essere intellettuale viene guardato con sospetto, e io sono felice di essere sospetta.

Si riapre così il mai esaurito tema sulla funzione della scena, e il compito che deve assumersi in un temoi che molto spesso tende fino a spezzarlo, a un sistema (di pubblico e addetti ai lavori) lo vuole anacronistico da un lato e affrettato a rincorrere l’attualità nel verso opposto.

Quella che è forse la più contemporanea delle autrici apre, come sempre ha fatto, uno sguardo altro, obliquo, che lungi dall’essere una reclusione in una pretesa torre d’avorio di alterità tratteggia un modo di intendere anche quel che è più convenzionale. Così la drammaturga, che ha preso casa a Venezia e dice di amare l’Italia per “le cose più classiche” e, ancora convenzionali, la luce, la musicalità della lingua scova negli italiani un pregio che dice molto del presente: “il fatto di essere fatalisti e caotici ma mantenendo una certa dolcezza”.

Una ingenuità forse solo apparente: sa di non parlare solo della Francia, ma di suggerire con grazia qualcosa che ci tocca da vicino quando racconta la sua terra come “rude, ruvida, incattivita” Venezia, sorride, è sommersa dai turisti, un’orda che fa paura, ma i veneziani ti rispondono ‘è così’.

Un fatalismo ai suoi occhi parente della vitalità piuttosto che della rassegnazione, e forse da questo lato delle montagne servono gli occhi di una parigina figlia d’ebrei iraniani e ungheresi per rendersene conto. E i suoi occhi per vedere quella luce che “come i luoghi ha un influsso” cui bisogna saper prestare attenzione, mentre “i cieli grigi sono per tutti”.

È per tutti la lettura delle cose a una sfumatura sola, l’esigenza di identificare e definire ciò che ci circonda. Un vizio da cui non è indenne nemmeno la scrittura. Reza se ne è accorta toccando con mano la vita, nelle corti di giustizia di provincia. “Trovo ne processi una umanità e una complessità molto maggiore di quella che immagiamo scrivendo”.

Una volta compreso, però, si può davvero farne materia. E così il suo ultimo romanzo, Babilonia, racconta un delitto totalmente ordinario. Eppure proprio per questo riesce, come solo il talento di Reza è riuscito, a dare corpo alla “verità senza volontà, senza desiderio né più né meno”.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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