Bookcity #6. Bluemotion a Bookcity alla scoperta di Caryl Churchill

Bluemotion in Caffettiera Blu, C. Churchill

Bluemotion: al pubblico di Bookcity il teatro di Caryl Churchill

Si faccia avanti chi conosce Caryl Churchill. Se questo invito fosse rivolto ai teatranti anglosassoni, solleverebbe un moto di costernazione per la banalità della richiesta.

In Italia, si contano in fretta anche tra gli addetti ai lavori coloro che sanno chi sia. Eppure i suoi eredi artistici rispondono a nomi conosciuti: Mark Ravenhill su tutti. Si tratta infatti dell’autrice che può a pieno titolo essere considerata la madre della drammaturgia contemporanea inglese. Nonostante questo, per trovarla in italiano, sia nelle accademie che in scena, bisogna immergersi alla scoperta di realtà eterodosse, combattenti.

Bluemotion in Caffettiera Blu, C. Churchill

È il caso della compagnia Bluemotion, che dentro allo spazio occupato e brulicante dell‘Angelo Mai hanno costruito con le proprie forze una casa all’autrice inglese, «per studiarla e studiare attraverso di lei» portandone in scena molti testi.

Una scelta che si sostiene su pochissimi nomi di accademiche che si sono assunte l’onere di tradurre Churchill in italiano.

Docenti appassionate, grazie a cui i giovani attori di oggi, smessi i panni dei loro studenti, hanno condiviso l’amore e restituito l’autrice alla scena. Questa è stata la funzione soprattutto di Paola Bono a Roma, di cui Giorgina Pi, oggi regista di Bluemotion, frequentava i corsi. È però alla Statale di Milano che insegna la prima traduttrice di Caryl Churchill, Margaret “Maggie” Rose.

È lei ad aver voluto portare a Milano, ai suoi studenti e al pubblico di Bookcity grazie a una affascinante lezione aperta, il teatro di Churchill. Ma siccome un autore di teatro esiste in funzione della scena, nessun modo migliore di permettere di scoprirla se non recitandola.

Così Giorgina Pi ha scelto di portare con se l’intera compagnia, per la maggior parte giovane e talentuosa nella sua totalità, come raccontano tanto le precedenti esperienze di ciascuno quanto la dimostrazione milanese: Sylvia De Fanti, Alessandro Riceci, Tania Garribba, Lorenzo Parrotto, Aurora Peres, Marco Spiga e infine Marco Cavalcoli, reduce dall’esperienza con Fanny e Alexander.

Più attori di quanti se ne vedano abitualmente sulle scene italiane: è il primo particolare che salta all’occhio, e uno dei motivi più significativi della scarsa fortuna di Churchill sui nostri palchi.

Con la povertà di risorse ormai endemica del teatro italiano mal si concilia un’autrice che procede per lavori corali, spesso privi di un reale protagonista. «Adatti per i gruppi e non per le star», è la chiosa ficcante della regista. Accanto ai motivi di ordine tecnico, viene da chiedersi se possa esistere una forma di diffidenza per la caratteristica che renderebbe necessario anche oggi il teatro di Churchill.

Il suo «prendere sempre posizione», fare politica con i suoi testi.

Non nella forma spicciola oggi comune che rende molti dei pretesi lavori civili contemporanei datati nel volgere di un paio di stagioni, ma con uno stile e un’intelligenza drammaturgica che rendono contemporanei al limite della preveggenza testi che hanno trenta, persino quarant’anni. Pièce che parlano di femminismo, aborto, ecologia, razzismo.

Dalla penna di una mano che non smette mai di scrivere (i lavori più recenti sono datati 2016) e di confrontarsi col mondo che ci circonda. Lo dimostra, qualora ce ne fosse bisogno, il reading nell’aula milanese di Amore e informazione, del 2012, contenuto nel quarto volume dell’opera omnia teatrale dell’autrice curato da Sara Soncini che offre l’occasione all’evento.

Il linguaggio del testo specchia la frammentazione tipica dei mezzi di comunicazione dell’oggi, e apre un’altra tematica sorprendente in Churchill, quella della lingua.

Le letture degli interpreti di Bluemotion offrono assaggi affascinanti, che si sublimano in un testo come Caffettiera blu, dove la coerenza verbale si frantuma e si liquefa fino a trasformare i dialoghi in declinazioni delle parole caffettiera e blu, dimostrando che non per questo la tensione drammaturgica, la coerenza, la suggestione e la comprensione delle vicende di un figlio adottivo in cerca della madre biologica ne risultano compromessi.

Bluemotion in Settimo Cielo, C. Churchill

Anche laddove non si raggiungano questi eccessi, nella surrealtà profonda dei testi di Churchill (la cui maternità spiega con esattezza i meccanismi narrativi di un testo come Candide di Ravenhill, portato in scena al Teatro Argentina lo scorso anno) c’è spazio per uno stile eterogeneo e curioso in cui hanno spazio passaggi musicali come in Settimo cielo o brani di dialogo da inserirsi nel testo a discrezione del regista, come in Andiamo.

Qui si esemplifica un’altra caratteristica fondativa del teatro di Caryl Churchill: la grande «fiducia che il teatro si fa insieme».

Per lungo tempo, per conciliarlo con la scelta di avere una famiglia, il lavoro di Churchill si è svolto infatti esclusivamente come autrice.

Ciò le ha fatto sviluppare la certezza che un autore non esiste senza regista e interpreti. Per Churchil quindi «il teatro è continua trasformazione di ciò che è scritto», che pur nel suo continuo schierarsi non solo accoglie, bensì costringe chi è sulla scena a partecipare attivamente del testo, a costruirlo, riassemblarlo.

E facendolo a risultare completamente fedeli ai testi originali: drammaturgie così fluide, ad esempio, hanno permesso a Giorgina Pi di non modificare o espungere nemmeno una battuta.

Eppure testi come Soft Cops permettono a Churchill di «evitare che il suo teatro diventi prescrittivo» continuando a parlare delle questioni che intende sollevare. Chiedere in didascalia di aggiungere particelle discorsive come «trovare un modo per portare israeliani e palestinesi a» consente di creare le situazioni più diverse, senza mai eludere il tema.

Caryl Churchill

Come in Caffettiera Blu, quando i «caffettare» e «bluare» risultato dello sforzo di traduzione di Margaret Rose si moltiplicano, «il significato è chiaro, ma non unico».

Ne nasce una possibilità sempre aperta, una spirale destinata a non finire, che obbliga dispositivi scenici, attori e spettatori, a «ripensarsi ed essere ripensati» persino nelle appartenenze di etnia, di età, di genere, di cui Settimo cielo – in scena dal 14 al 25 febbraio al Teatro India di Roma e ci si augura presto a Milano – offre forse la più completa dimostrazione.

Quella di Caryl Churchill non è solo la riscoperta di un’autrice colpevolmente misconosciuta, ma un’immersione in una prospettiva «non normale, non rassicurante» come da titolo del Progetto Caryl Churchill. Quello che un teatro che voglia continuare ad avere qualcosa da dire deve diventare.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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