Quando lo straniero diventiamo noi. Intime Fremde/Intimi stranieri vince Crashtest Festival

Parole gridate in una lingua ai più incomprensibili. Tute asettiche, mascherine protettive. E mani che frugano borse e tasche, violando l’individualità di chiunque abbiano davanti, quale che sia l’età, la condizione.
Vietato documentare ciò che accade.

È così che inizia Intime Fremde, l’ultimo spettacolo in concorso a CrashTest Festival. Ci si trova strattonati dentro quello che potrebbe essere un qualsiasi centro d’accoglienza, anziché un contesto teatrale. La passività dello spettatore si trasforma in partecipazione attiva, ma da scelta diviene una condizione subita.
Ugualmente subiti sono gli sguardi di disprezzo, di giudizio, di sospetto, che si scoprono rivolti contro tutti coloro che non hanno cittadinanza. Non hanno cioè – come scrive Thomas Marshaluno status che viene concesso soltanto a chi è membro a pieno titolo di una comunità”. Gli altri, tutti gli altri, gli alieni, ne sono privati anche quando sulla carta la possiedono. I requisiti sono infatti innumerevoli e violentemente imposti: dove nasciamo, chi amiamo, che età abbiamo, con quale aspetto ci presentiamo al mondo.
Ogni aspetto della nostra identità ci definisce e facendolo ci rende stranieri, potenzialmente ostili e soggetti a trovarci all’interno o al di fuori di un confine, di un muro.
Quello che divide il Messico dagli USA, il muro d’acqua del Mediterraneo, quello di sabbia del deserto del Sahara. Muri dentro i quali uomini e donne si trasformano in carne da lavoro, se sono fortunati. Oppure in cose. O in polvere.

Lo spettacolo, prodotto in collaborazione tra il Teatro del Lemming e Tatwerk Performative Forschung di Berlino, dove la compagnia Welcome Project risiede, offre loro voce, racconta le loro storie, attraverso i volti di tre espressive attrici loro volta con differenti storie e origini da raccontare. Accanto all’italiana Aurora Kellerman sono infatti in scena le tedesche Babeth Woundenberg e Ela Cosen (di origini turche).
Una drammaturgia che procede per giustapposizioni, a cui la regia di Chiara Elisa Rossini conferisce un ritmo serrato e contenuti visivamente efficaci e capaci di evocare emozioni viscerali, ricorda allo spettatore che le frontiere esistono. Per la maggior parte sono invalicabili, per i fortunati accessibili. Per pochi sono utili e convenienti. Le loro linee e le loro regole talvolta cambiano, ma loro esistono. E non possono eluse, così come non può essere elusa la possibilità di parte del pubblico di non capire ciò che gli viene detto: parte dello spettacolo viene infatti recitata in tedesco: un espediente che si rivela estremamente efficace, per far percepire il significato concreto dell’essere straniero. Lungo una notevole messe di spunti e suggestioni, la pièce tocca i nervi scoperti dell’oggi senza fare sconti, e pone al presente domande impellenti.

Sono questi i motivi che hanno spinto la giuria critica di CrashTest Festival (presieduta da Sonia Antinori) ad assegnare a questo titolo il premio di un festival che si pone come obiettivo valorizzare il teatro contemporaneo.
Trovare le risposte è compito di chi si ritiene cittadino, eppure è proprio nelle domande che può nascondersi una possibilità di futuro.
Chiamando in causa persone che si trovano tutte all’interno della medesima realtà, esse possono ritrovare la propria umanità. E tessendo un filo reciproco, la mano che prima era invadente o soltanto distante può arrivare a stringersi, in un rituale laico capace di generare un primo momento di pace. Che ci lascia stranieri, ma ci rende, al contempo, intimi.
Un istante che tuttavia non può essere catarsi né redenzione. Si tratta invece piuttosto di un primo passo, in un mondo dove il numero di chi sul filo di quei confini muore, privato anche del nome, non può essere contato.
Puerile allora sperare che su un corpo coperto da un telo asettico possa calare un liberatorio applauso. La scelta – per alcuni controversa – di lasciare il palco vuoto a spettacolo concluso, pone al pubblico l’ultima, decisiva, sfida. Che non si illuda che tutto ciò che fino a quel punto gli è stato spinto con decisione davanti agli occhi, fra le dita, sulla pelle, possa essere derubricata a semplice recitare, agire scenico.
Esiste il teatro, ma non più la finzione. I nomi dei morti, come quelli sui documenti mostrati a chi perquisisce chi entra in sala, sono vite.
Reali.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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