Più Libri Più Liberi 2019 #13. A 10 anni dal sisma, una storia ancora da scrivere (e riscrivere)

Sei aprile 2009. Sono passati dieci anni, eppure per molti il tempo è ancora fermo lì. E se non potrebbe essere altrimenti per quanto riguarda le anime e le menti, avrebbe potuto, dovuto esserlo per quanto riguarda il resto.

Se c’è una certezza che emerge dall’appuntamento che Più libri più liberi dedica al ricordo del terremoto dell’Aquila, è la consapevolezza di quanto sia difficile la ricostruzione, in tutti i suoi aspetti. Tanto più quando altri terremoti hanno soppiantato il ricordo.

Eppure, con una partecipazione che ha molto di personale, alla Nuvola si vuole continuare a parlarne. Lo fanno Marino Sinibaldi e Donatella Di Pietrantonio muovendo dal libro della scrittrice abruzzese che è germogliato anche sulle macerie di questa esperienza, Bella Mia e che oggi Einaudi ripubblica sulla scorta del recente successo de L’arminuta.

Un libro, sintetizza Sinibaldi, che però “ha diversi traumi dentro”. Di cui il terremoto è soltanto uno, non il primo. Punto di partenza di una pretesa di ricostruzione, immediata ma frettolosa, che ha ridato agli aquilani “una vita artificiale”, dove le case sono state soppiantate da C.a.s.e, che in comune hanno poco più del suono. Moduli completi di bottiglia di champagne nel frigorifero, una parodia di festa che i protagonisti del romanzo svuotano nello scarico come primo gesto, ingombrati da uno strazio che l’autrice ha avuto timore di raccontare.

Lei che viene dalla provincia e a cui il capoluogo ha fatto da cornice all’ingresso nell’età adulta, gli anni dell’Università. Racconta: “L’Aquila per me è l’idea della libertà. Per una ragazza di campagna trasferirsi in una città di 70 mila abitanti era comunque scoprire la vita, ed è per questo che si è sviluppato un legame forte con la città e gli abitanti, in una dimensione piccola che permetteva di ritrovarsi senza darsi appuntamento. Col terremoto si è perso questo”.

Ed è questa geografia dei sentimenti che ha voluto dare voce, superando “l’imbarazzo di non essere aquilana”. “Non mi sentivo il diritto di parlare di lutti non avendo vissuto nell’epicentro del dolore. Ma era comunque un’urgenza”.
L’urgenza di conservare almeno su carta i tratti di un luogo dove, commenta Sinibaldi “tutto molto vicino. L’Aquila è una sintesi e un’iperbole di tante città italiane, dove ognuno ha un suo posto”.

Ed è proprio questa una delle sfide a cui si è chiamati, a cui sono chiamati anche gli scrittori. Accanto alle nuove mura “La grossa sfida oggi è riabitare una città di cui i ragazzi non hanno memoria, e a cui i vecchi non torneranno. Il rischio è avere un bellissimo centro storico ristrutturato dov’era ma vuoto, un grande plastico vuoto”.

A dare voce al tentativo di Di Pietrantonio, nell’occasione romana e tra alcuni mesi sulle piattaforme audio per conto di Emons, l’attrice Lucia Mascino, marchigiana di ascendenze abruzzesi, familiare almeno per appartenenza geografica due volte negli ultimi anni allo sconvolgimento della terra che trema. Eppure, racconta, non è stato questo ad aiutarla a trovare il suono di questo “racconto in soggettiva”.

Semmai il suo essere un racconto di relazioni. “Così ne ho avuto un’impressione non esterna. È stato il suo grande tatto che mi ha fatto entrare nel libro, non su quello che ho vissuto. Certo ognuno si ricorda dove era, quel 6 aprile, ma è il pudore della narrazione che mi ha aiutata”. Una sobrietà che è la cifra dell’autrice abruzzese, che in Bella mia mette al centro una “relazione costruita sulla maceria”.

La storia di una donna, Caterina, che in questa nuova realtà provvisoria cresce il figlio della gemella uccisa dal terremoto. Tratteggia così una mappa matrilineare, una genealogia femminile composta di una zia, una nonna e dall’assenza di una madre  intorno a un ragazzo che espone agli altri i suoi spigoli per continuare a vivere.

Di Pietrantonio torna al romanzo di anagrafe familiare, dove questa volta “il terremoto è lo sconvolgimento del posizionamento raggiunto”. Vite, quelle dei suoi protagonisti, che “non avevano bisogno del terremoto, ognuno aveva i propri dolori e complessità”. Eppure, improvvisamente, raggiunti equilibri precari, bisogna ricominciare da capo, ricostruire le relazioni in un contesto anomalo e finto, e alienante. Di nuovo la scrittrice si confronta con una famiglia dalla geografia insolita e incompiuta, una mancanza e una presenza che rovescia quelle dell’Arminuta “con un raddoppio di famiglie  si sente orfana”.

Farne il centro di un libro suggerisce però anche, guardando all’oggi, il terremoto “come grande catastrofe culturale, che vede venire meno un modello di città, un modello di piazza”.  Cui si era cercato di porre rimedio anche con gesti semplici ma significativi, come il Bibliobus di Radio 3, che aveva riportato nei campi temporaneiuna possibilità di riprendere, ripartire da una quotidianità anche di consumo culturale.

Un contraltare sobrio eppure più significativo del roboante arrivo dei i big mai aspettati, la passerella immediatamente successiva al dramma. “Accadevano in quei giorni – ricorda l’autrice – eventi eccezionali che la gente traumatizzata non poteva fruire. Forse non era quello il bisogno della gente, lo chef stellato sceso a cucinare per la tendopoli. Si avevano invece bisogni più piccoli e quotidiani, come quello di leggere un libro”.

Nel frattempo, però oggi in centro, vicino a dov’era, riapre la libreria,  ha riaperto una cantina storca: un segno di un futuro che ricomincia.  Un ottimismo sulla ricostruzione fisica che però vale quasi solo esclusivamente per l’Aquila, puntualizza di Pietrantonio, che “ha una visibilità. Ma i piccoli centri appenninici no” e non solo in conseguenza del terremoto, le cui conseguenze hanno gettato un breve cono di luce su un disinteresse che percorre la spina dorsale del paese molto oltre la tragedia “Come possiamo lamentare lo spopolamento dell’Italia interna, dei borghi, se le persone devono percorrere 50 km per l’ospedale pù vicino?

A questo, soprattutto, urge una risposta, davanti a eventi devastanti tristemente comuni. Altrimenti si rischia “l’abitudine alla catastrofe o l’irritazione populistica, il risentimento. Nell’azione muscolare del governo di allora si è perso il progetto della ricostruzione”. Oggi invece anche attraverso la cultura passa il pensiero al futuro della città, una sfida ancora aperta. Oggi “il problema è l’introvabile e irranggiungiile che stiamo perdendo, e qualcosa si è già perso in modo già irreversibile. Tesori di arte già degradata, le chiese sulla via della transumanza”.

E allora anche gesti piccoli si rivelano decisivi, e quello della Madonna in terracotta a Tossicìa restaurata coi proventi di un libro è il volto di una storia che si può, si deve ancora scrivere.

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Nata (nel 1994) e cresciuta in Lombardia suo malgrado, con un' anima di mare di cui il progetto del giornalismo come professione fa parte da che ha memoria. Lettrice vorace, riempitrice di taccuini compulsiva e inguaribile sognatrice, mossa dall'amore per la parola, soprattutto se è portata sulle tavole di un palcoscenico. "Minoranza di uno", per vocazione dalla parte di tutte le altre. Con una laurea in lettere in tasca e una in comunicazione ed editoria da prendere, scrivo di molte cose cercando di impararne altrettante.

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